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21/04/2018 00:00:00 | Sabato 21 Aprile alle ore 21.00, nella Parrocchia di Sant'Antonio Abate a Canevara (Massa) si terrà l'evento "STABAT MATER e VIA CRUCIS". Opera Sacra per coro voci soliste, voci recitanti, flauto traverso, organo ed immagini. Testi recitati dai Vangeli letti da Luciana Madrigali e Iacopo Vettori Testi di Jacopone da Todi cantati dalla Corale Pucciniana Iconografia di Franco Anichini Musica di Marco Trasatti |
17/08/2017 00:00:00 | Mercoledì 9 Agosto, con il Gruppo Teatrale "Terra di Viareggio", abbiamo presentato il nostro nuovo spettacolo "Esercizi di stile" tratto dall'omonimo libro di Raymond Queneau. Dal video dell'evento ho estratto il trailer che è possibile vedere alla pagina dedicata allo spettacolo. Replicheremo il 23 agosto, al Teatro Estate nella pineta di ponente, vicino al laghetto dei cigni, a Viareggio. |
14/03/2017 00:00:00 | Sabato 11 Marzo, insieme a Riccardo Arrighini, abbiamo presentato agli amici dell'Associazione Culturale Medusa l'anteprima del nostro spettacolo "La Boheme in Jazz", dove accompagno il suo pianoforte con la mia voce, nella rivisitazione in chiave jazz dell'opera lirica di Puccini. Racconto la trama dell'opera, a volte con passi ripresi direttamente dal romanzo originale di Henri Murger "La vita di Bohème", e interpreto i dialoghi dei personaggi, seguendo il libretto di Illica e Giacosa. Abbiamo avuto un'accoglienza calorosa da parte di un pubblico che già ci conosceva, e il successo ci lascia ben sperare per le prossime date: venerdì saremo al "Teatro Artè" di Capannori. |
28/05/2016 00:00:00 | Mercoledì 25/05/2016 sono stato ospite della Società Dante Alighieri di Salerno al locale Bea'z Club, dove ho declamato alcuni passi delle Divina Commedia tratti dal mio spettacolo "Deviai dal Cammino". Per l'occasione, ho preparato un audiolibro con le mie introduzioni e i versi che declamo nello spettacolo. Avevo già preparato in precedenza alcune registrazioni in studio e alcune foto tratte dallo spettacolo del 16 ottobre 2015 al Teatro Augusteo di Salerno, che sono disponibili in una pagina dedicata. Il giorno successivo, giovedì 26/05/2016 sono stato ospite alla cerimonia per i 40 anni dell'Istituto Tecnico Basilio Focaccia di Salerno, insieme a tante persone che hanno fatto la storia dell'Istituto. In questa occasione, ho letto un brano dal titolo "Lettera alla scuola" scritto dalla professoressa Maria Cavallo, mettendo insieme alcune testimonianze reali, e ho declamato il monologo di Ulisse tratto dal XXVI Canto dell'Inferno. Per concludere in tono più leggero, ho recitato anche la poesia di Wislawa Szymborska "Pi greco", per mostrare che l'istruzione può avere momenti divertenti e giocosi, che stimolano la curiosità e la fantasia. |
27/04/2016 00:00:00 | Venerdì 09/04/2016 abbiamo replicato il nostro spettacolo "Il quotidiano e l'infinito" presso la sede dell'Associazione Culturale "L'Uovo di Colombo", a Viareggio. Per l'occasione, abbiamo stampato un audiolibro con le traduzioni delle poesie e le registrazioni realizzate da noi durante le prove. Le registrazioni, insieme ad alcune foto tratte dallo spettacolo del 10 Luglio 2015, sono disponibili in una pagina dedicata. |
11/03/2016 00:00:00 | Lunedì 29/02/2016 alla Villa Bertelli di Forte dei Marmi abbiamo replicato il nostro spettacolo "Il quotidiano e l'infinito", dove sono messe in scena alcune poesie di Wislawa Szymborska tradotte da Alessandra Czeczott. Ringrazio l'associazione culturale "Il Magazzino" che ci ha invitato a Villa Bertelli. Abbiamo deciso che il nome del nostro gruppo teatrale sarà "Terra di Viareggio" come l'Associazione Culturale di Viareggio con cui collaboriamo sin dall'inizio e che ci ha messo a disposizione il Teatrino Pacini per le prove degli spettacoli e i corsi di teatro. |
27/10/2015 00:00:00 | In data 16/10/2015 ho replicato il mio spettacolo sulla Divina Commedia "Deviai dal Cammino" al Teatro Augusteo a Salerno, davanti a un numeroso pubblico appassionati, tra cui molti giovani. In questa replica ho aggiunto alcune immagini realizzate dal prof. Franco Anichini, e degli stacchi musicali tratti da brani dei Pink Floyd e di David Bowie (molti composti con Brian Eno). Nella pagina dedicata alla recitazione ho aggiunto un video con il monologo di Ulisse, seguito dagli applausi di fine spettacolo. Per la grande emozione dell'evento, penso che questa versione del Canto di Ulisse sia la migliore che abbia mai fatto. Devo ringraziare il comune di Salerno, l'assessorato alla cultura, il dirigente scolastico e i professori dell'Istituto Tecnico Basilio Focaccia che hanno reso possibile lo spettacolo per la commemorazione dei 750 anni dalla nascita di Dante Alighieri. |
20/10/2015 00:00:00 | In data 09/10/2015 e poi in data 16/10/2015 ho replicato il mio spettacolo sulla Divina Commedia "Deviai dal Cammino" prima al Teatrino Pacini presso la chiesa di Sant'Antonio a Viareggio, davanti a un pubblico di pochi amici e parenti, e poi al Teatro Augusteo a Salerno, davanti a un numeroso pubblico appassionati, tra cui molti giovani. Nella replica fatta a Salerno, ho aggiunto alcune immagini realizzate dal prof. Franco Anichini, e degli stacchi musicali tratti da brani dei Pink Floyd e di David Bowie (molti composti con Brian Eno). Nella pagina dedicata alla recitazione ho aggiunto un estratto video con la declamazione del Conte Ugolino tratto dalla serata di Viareggio. Spero a breve di poter disporre di un estratto video anche della replica fatta al Teatro Augusteo di Salerno. Devo ringraziare il comune di Salerno, l'assessorato alla cultura e il dirigente scolastico e i professori dell'Istituto Tecnico Basilio Focaccia che hanno reso possibile lo spettacolo per la commemorazione dei 750 anni dalla nascita di Dante Alighieri. |
22/08/2015 00:00:00 | Ieri ho tenuto una lettura di poesie contemporanee insieme all'amico e collaboratore Pierluigi Cambi L'evento è stato organizzato da Franco Giorgetti nell'ambito di una serie di incontri al bocciodromo della pineta di ponente a Viareggio. Nella pagina dedicata alla recitazione ho aggiunto un estratto video con la declamazione dell"Urlo" di Allen Ginsberg. |
18/07/2015 00:00:00 | Lo spettacolo "Il quotidiano e l'infinito" - Omaggio a Wislawa Szymborska andato in scena nel giardino della chiesa di Sant'Antonio a Viareggio il 10 Luglio 2015 è stato un successo che ci ha regalato molte soddisfazioni e che speriamo di replicare presto. Nella pagina dedicata alla Szymborska ho aggiunto alcuni estratti video dello spettacolo. |
05/07/2015 00:00:00 | Grazie all'associazione culturale Terra di Viareggio il 10 Luglio 2015 presenteremo lo spettacolo "Il quotidiano e l'infinito" - Omaggio a Wislawa Szymborska Poesie messe in scena - Traduzioni di Alessandra Czeczott con Luciana Madrigali, Rebecca Polloni, Silvia Francalancia, Valeria Cappelli, Iacopo Vettori |
19/08/2014 00:00:00 | Domani 20 Agosto 2014, alle ore 17.00, proporrò il mio spettacolo "Deviai dal cammino" al teatrino allestito accanto al parco giochi nella pineta di via Zara a Viareggio. Il titolo è un anagramma di "La Divina Commedia" pubblicato nel 2006 nella rubrica "Lessico e nuvole" del venerdì di Repubblica, ed è adatto per giustificare le divagazioni che propongo nella breve introduzione di ogni brano, insieme alle poche note necessarie. Nello stesso spazio sabato 23 Agosto, sempre alle ore 17.00, insieme ad Andrea Baratti e al gruppo "Leggere e Scrivere Poesia" presenteremo uno spettacolo in ricordo di Egisto Malfatti, dove leggerò alcune sue poesie e brani estratti dai suoi libri. Infine venerdì 29 Agosto, al Fienile al campo d'aviazione, in occasione della presentazione del libro di poesie "Nell'anima di una nuvola" di Karen Tognini, leggerò alcune poesie insieme all'autrice. |
21/02/2014 00:00:00 | Questa sera alle h21.15, al Teatro Jenco di Viareggio andrà in scena "Egisto Malfatti: un uomo, una città" spettacolo realizzato dall'associazione culturale "Terra di Viareggio", in occasione del centenario della nascita di Egisto Malfatti, dove collaboro leggendo alcuni suoi brani di prosa e poesia. |
25/07/2013 00:00:00 | Giorni di frenetica attività per la recitazione. Domani sera venerdì 26 Luglio alle h21.15, nel cortile della chiesa di Sant'Antonio a Viareggio andrà in scena "Aspettando il centenario - Omaggio a Egisto Malfatti" spettacolo realizzato dall'associazione culturale "Terra di Viareggio", dove collaboro leggendo alcuni brani di prosa e poesia di Egisto Malfatti. Sabato pomeriggio alle h17.00 al comune di Massarosa partecipo alla presentazione del libro di Claudia Bartoletti "April Rose", leggendo alcuni estratti del racconto. In serata, alle h21.15, Rete Versilia (canale 85) trasmetterà un'intervista di un'ora che ho registrato mercoledì mattina con Massimo Mazzolini, incentrata sulle vicende della mia famiglia e sulle mie esperienze di recitazione. Durante l'intervista, recito i brani del monologo di Ulisse dal XXVI canto dell'Inferno, la poesia "Pi greco" di Wislawa Szymborska e "La lunga strada" di Lawrence Ferlinghetti tradotta da Vittorio Gassman. La trasmissione sarà replicata domenica mattina alle h9.00 e nel pomeriggio alle h15.00. Sul canale 213 si possono vedere tutte le trasmissioni di Rete Versilia in differita di tre ore. Inoltre, sabato 3 Agosto parteciperò allo spettacolino organizzato dall'associazione "Leggere e Scrivere Poesia" negli spazi del bocciodromo nella Pineta di Levante a Viareggio. Sempre in Agosto, in data ancora da definirsi, declamerò alcune poesie ad una mostra di pittura organizzata alla "Rotonda" di Livorno. |
05/06/2013 00:00:00 | Il lungo periodo durante il quale non ho caricato aggiornamenti non è passato senza iniziative, ma a volte altre attività richiedono una maggiore parte del mio tempo. Per questo carico solo ora un video realizzato nel marzo di quest'anno, in occasione dell'evento "Mare e poesia" che si tiene ogni primavera al Museo della Marineria a Viareggio. Quest'anno ho presentato "Morte per acqua" di Thomas Stearns Eliot, "L'albatros" di Charles Baudelaire e "Su una lettera non scritta" di Eugenio Montale. Le ultime due poesie le avevo già preparate per il video di "Finis terrae" realizzato da Giovanni Guarino, ma è stata una buona occasione per proporle ad un nuovo pubblico, essendo poesie legate al tema del mare e della marineria. |
28/10/2012 00:00:00 | Il mio amico Giovanni Guarino nel corso di questa estate ha completato il suo cammino verso Santiago de Compostela, che ha documentato in un video pubblicato su Vimeo nell'Ottobre 2012. Per molti pellegrini la tappa finale di questo viaggio affascinante si estende fino alla città di Finisterre, che per secoli ha rappresentato l'estremo limite occidentale delle terre conosciute. Giovanni ha realizzato un altro video per farcela visitare, Finis Terrae, a cui sono contento di aver contribuito leggendo tre poesie: "L'albatros" di Baudelaire, "Spesso il male di vivere ho incontrato" di Montale, e "Su una lettera non scritta", sempre di Montale. Vi invito a visionare su Vimeo i due video più lunghi, ma intanto qui sul mio sito presento un estratto da "Finis terrae" dove recito la poesia di Eugenio Montale "Su una lettera non scritta". |
02/08/2012 00:00:00 | Nell'ambito della rassegna "Estate al Forte 2012", domani sera è in programma il mio spettacolo "A Egregie Cose", recital di brani classici della letteratura italiana. Dall'Inferno di Dante Alighieri proporrò il canto XXVI ("Ulisse"), da "I promessi sposi" di Alessandro Manzoni il dialogo tra l'innominato e il cardinal Federigo, poi "La ginestra" di Giacomo Leopardi e "Dei sepolcri" di Ugo Foscolo. Ho creato un evento su facebook che può essere visionato anche senza essere iscritti. Il luogo è la pineta "Pizzo del Giannino" a Forte dei Marmi. L'inizio è previsto verso le 21.15. |
29/07/2012 00:00:00 | Lo spettacolo "Il Moretto e la Stiacciamilioni" ha avuto degli ottimi commenti dal pubblico, e mi ha dato una gran soddisfazione. Per chi fosse incuriosito, una replica è prevsta al GAMC di Viareggio per il 1.o Novembre 2012. Nell'ambito del mio progetto di completare i commenti alla Divina Commedia oggi ho riscritto quello del Canto II dell'Inferno. |
26/07/2012 00:00:00 | Domani sera debutta lo spettacolo "Il Moretto e la Stiacciamilioni" basato su un fatto di cronaca di Viareggio di inizio 1900 raccontato da Lorenzo Viani. Per la prima volta, oltre a recitare, ho curato anche la direzione degli altri attori. La ricerca storica è di Claudio Lonigro, con il quale ho collaborato per l'adattamento scenico. |
08/07/2012 00:00:00 | Ho ripreso il progetto di completare i commenti alla Divina Commedia ed ho riscritto quello del Canto I dell'Inferno. |
03/07/2012 00:00:00 | Stasera partecipo all'evento "Notte Bianca al Laghetto dei Cigni", le informazioni si possono trovare su Facebook. Durante lo spettacolo di danza del ventre, leggerò alcune poesie arabe. A seguire, leggerò alcuni brani famosi della Divina Commedia. Infine, balleremo tutti la salsa con Cristina e Mascalzone Latino della scuola SoyCubaRico! Cena al chioschetto con menu a scelta di terra o di mare. Accorrete numerosi! A proposito: buon compleanno, Lella, e ben tornata a casa! |
24/03/2012 00:00:00 | Oggi si è svolta l'edizione 2012 dell'evento "Mare e Poesia", un appuntamento che si rinnova ormai da qualche anno ad ogni primavera. Questa volta, invece di una poesia, ho voluto preparare un brano di prosa, una riduzione dell'ultimo capitolo di "Moby Dick" di Herman Melville. Un video con una parte della mia performance è disponibile nella pagina dedicata alla recitazione. Ho aggiunto anche un link a un file audio registrato come prova il giorno prima. |
01/01/2012 00:00:00 | Buon 2012 a tutti. Ho iniziato l'anno pubblicando la mia ultima stesura degli Argomenti a Favore dell'Open Individualism. Per quest'anno ho già lavorato abbastanza. |
20/12/2011 00:00:00 | Nei giorni scorsi ho avuto la sorpresa di ricevere da Giovanni Guarino il video del XXVI Canto dell'Inferno, dove ha combinato le immagini di una mia precedente registrazione con delle riprese che ha effettuato a Firenze, Napoli e Luton. Da parte mia, ho solo ritoccato l'audio, registrando una nuova versione della prima parte del canto. Come già nel precedente XXXIII Canto del Paradiso abbiamo iniziato a firmare le nostre collaborazioni con il logo "Almost Free" che potete vedere in testa e in coda al video. Grazie Giovanni di questo bellissimo dono natalizio che sono felice di condividere con tutti gli appassionati della Divina Commedia, con tanti cordiali auguri di buon Natale. |
28/10/2011 00:00:00 | Domani, sabato 29 Ottobre, verso le ore 21.30 leggerò alcune poesie di poeti contemporanei presso la mostra personale di pittura da Andrea Beuermann in esposizine dal 22 Ottobre al 6 Novembre nella galleria Sala delle Grasce a Pietrasanta, in via S. Agostino, 1 (accanto alla scalinata per accedere al chiostro di S. Agostino). I brani in programma sono: "I Fiumi", di G. Ungaretti; "Gli uomini vuoti", di T. S. Eliot; da "Mediterraneo", di E. Montale; "Meglio no", di W. H. Auden; "Ballata delle Madri", di P. P. Pasolini; da "L' Urlo", di A. Ginsberg; da "La Terra Santa", di A. Merini; "La lunga strada", di L. Ferlinghetti. Tutti sono invitati! |
11/10/2011 00:00:00 | In questi giorni sono riuscito a preparare il nuovo video del XXXIII Canto del Paradiso che ho realizzato in collaborazione con Giovanni Guarino, dopo che il precedente video con la Preghiera alla Vergine ci aveva invogliato a farne un altro con l'intero canto. Per l'occasione, ho realizzanto una nuova registrazione con un po' di riverbero per rievocare l'ambiente della chiesa. Inoltre, poiché il 3 Ottobre, in occasione della cerimonia del "Transito" di San Francesco, ho avuto l'opportunità di recitare il Cantico delle Creature nella chiesa di Sant'Antonio di Viareggio, ho aggiunto anche la sua registrazione, usando di nuovo lo stesso tipo di riverbero, anche se è impossibile rendere l'effetto meraviglioso che può produrre solo lo spazio interno di una chiesa. |
27/09/2011 00:00:00 | Ho passato il mio 50.esimo compleanno prima lavorando a Milano come programmatore, e poi a Firenze come attore! In verità era ormai il 24 quando al "Teatro delle Spiagge", insieme a Rosita, Bea ed altri ex-compagni di Bottega ho partecipato allo spettacolo sullo scrittore Pier Vittorio Tondelli e gli anni ottanta a Firenze, con una parte dedicata a Vittorio Gassman e la sua Bottega Teatrale, per la regia di Nicola Zavagli. Mi sono divertito con tanti cari amici, e progetti per il futuro. Cosa desiderare di meglio? |
24/08/2011 00:00:00 | Dall'amico Giovanni Guarino ho ricevuto la bella sorpresa di un nuovo video che ha realizzato con la mia interpretazione della Preghiera alla Vergine del XXXIII canto del Paradiso, con delle suggestive immagini della sua recente visita alla Sagrada Famìlia di Barcellona. Un bel regalo che condivido volentieri sulle pagine di questo sito. Nel frattempo, si prospettano altre repliche dello spettacolo sulla Divina Commedia in Italiano e in Inglese che sto proponendo in collaborazione con Sinclair De Courcy Williams. La prossima replica è prevista per il due Settembre a Gualdo, sopra Massarosa, sul sagrato della chiesa. |
15/07/2011 00:00:00 | Come ripromesso, da oggi iniziamo le repliche estive del nostro spettacolo "Divina Experience. La Divina Commedia in Italiano e in Inglese". I canti proposti per quest'estate sono il IV e il V dell'Inferno. Il sottotitolo è "Intellect and Passion / Intelletto e Passione". Nel IV canto, Dante incontra i grandi personaggi famosi dell'antichità, che ebbero l'unico torto di essere pagani. Il quinto canto è quello famosissimo con i lussuriosi e la toccante storia di Paolo e Francesca. Lo spettacolo è impreziosito dall'introduzione musicale di Francesco Manfré, che eseguirà un paio di brani per violoncello di Bach. Stasera saremo nel giardino del Convento di Sant'Antonio, dietro la chiesa di Sant'Antonio a Viareggio, con ingresso dal lato di via San Francesco. Sono previste altre repliche, una a Seravezza al Teatro Delatre il 29 Luglio, e una il 15 Agosto a Forte dei Marmi, nel palco allestito nella pinetina Pizzo del Giannino, nell'ambito della rassegna "Estate al Forte 2011". Altre date sono già previste ma ancora non hanno una data definitiva. |
21/05/2011 00:00:00 | Lo spettacolo di ieri è venuto bene ma anche questa volta c'erano poco più che quattro gatti. Continueremo a insistere, convinti di meritare qualche attenzione in più. Per quest'estate, abbiamo in programma di proporre i canti III (Caronte), IV (il limbo) e V (Paolo e Francesca). Oggi ho pubblicato una nuova registrazione video del monologo di Ulisse del XXVI canto, per sottoporre la mia interpretazione ai miei ex-compagni della Bottega di Gassman, insieme ai quali stiamo progettando alcune iniziative ancora coperte da segreto professionale. |
18/05/2011 00:00:00 | Annuncio spettacolo! Venerdì 20 Maggio, alle ore 21.00, nel teatrino della chiesa di Sant'Antonio a Viareggio, (ingresso dal lato che dà su via San Francesco) si terrà lo spettacolo "Alle porte dell'Inferno" che ho realizzato in collaborazione con Sinclair de Courcy Williams. Si tratta della lettura dei primi tre canti dell'Inferno di Dante, che io reciterò in italiano e Sinclair in inglese, nella sua traduzione personale. Durante la lettura in inglese, vengono proiettate alcune slide che riportano il testo in inglese e molte immagini suggestive. |
05/05/2011 00:00:00 | Ogni tanto credo di poter rifare meglio una poesia che ho già registrato. Stavolta si tratta del cinque maggio di Alessandro Manzoni. Sarò migliorato davvero? Ai posteri l'ardua sentenza! |
03/05/2011 00:00:00 | La mia pigrizia nell'aggiornare questa pagina non corrisponde a una reale inattività. Il 21 Aprile ho partecipato al primo raduno nazionale degli ex allievi della Bottega Teatrale di Vittorio Gassman che si è tenuto a Firenze, dove abbiamo declamato in coro il XXVI canto dell'Inferno (il viaggio di Ulisse). Per il 20 Maggio, alle ore 21.00, nel teatrino della chiesa di Sant'Antonio a Viareggio, è prevista una replica dello spettacolo "Alle porte dell'Inferno" che ho realizzato in collaborazione con Sinclair de Courcy Williams. Speriamo che questa volta l'orario permetta una maggiore partecipazione di pubblico. Sul fronte della filosofia, dopo lunghe discussioni con amici in tutto il mondo, ho preparato una "Discussione strutturata" in italiano e in inglese che spero possa risultare più chiara e completa delle mie esposizioni precedenti. Infine, nella pagina dedicata al Centro Coscienza ho aggiunto la mia registrazione della poesia "La prigione del sole" di Cristanziano Serricchio, che dà il titolo alla raccolta pubblicata nel 2009 dalla Casa Editrice Marietti. |
29/03/2011 00:00:00 | Annuncio spettacolo! Il 1.o Aprile (e giuro che non è uno scherzo!) alle ore 18.30 nella "Sala dell'Annunziata" del Chiostro di Sant'Agostino a Pietrasanta parteciperò allo spettacolo "Alle porte dell'Inferno", realizzato in collaborazione con Sinclair de Courcy Williams. Si tratta della lettura dei primi tre canti dell'Inferno di Dante, che io reciterò in italiano e Sinclair in inglese, nella sua traduzione personale. Durante la lettura in inglese, vengono proiettate alcune slide che riportano il testo in inglese e molte immagini suggestive. Nella locandina è ritratto Caronte in persona, così come si è presentato davanti a Sinclair in uno dei suoi ultimi viaggi. Tosco Pesce S.p.A. è il nostro sponsor (che ringraziamo) che si è accollato la spesa delle locandine. Ripeto che malgrado le apparenze NON si tratta di un Pesce d'Aprile!!! |
29/01/2011 00:00:00 | Dopo anni di richieste, ho aggiornato il programmino inutile Alien, producendo AlienZack che è quasi uguale, ma ha un'astronave gigante che viene fuori all'ultimo schema. Inoltre, ho aggiunto la possibilità di premere F4 durante la presentazione, per accedere ad una finestra che permette di configurare il numero di vite disponibili, il numero di schemi e il numero di astronavi aliene per ogni schema. Ogni configurazione può essere salvata con un proprio nome, per poterla facilmente riutilizzare. Buon divertimento! |
31/12/2010 00:00:00 | Buona fine e miglior principio a tutti! In questo periodo sono pieno di cose da fare ed ho poco tempo da dedicare al mio sito web. Però tra le altre cose sto studiando anche nuove tecniche di programmazione web che in futuro spero di utilizzare anche qui. L'unica cosa che posso segnalare è che nella pagina con tutti i canti della Divina Commedia, dove ancora non ho completato tutti i commenti, ho saltuariamente aggiornato alcune registrazioni. Rispetto alla data di pubblicazione dell'ultimo canto, ho aggiornato i canti 1, 18, 21 e 26 dell'Inferno. L'ultimo aggiornamento è quello del canto 18, eseguito il 17 Novembre. Se avete collezionato tutti i canti, vi consiglio di scaricare le versioni aggiornate dove credo di aver fatto una interpretazione migliore. |
10/10/2010 00:00:00 | Non sembra, ma faccio tante cose. L'ultima è una risistemazione della pagina con tutti i canti della Divina Commedia, in modo da comprendere anche i commenti ai singoli canti visualizzabili facoltativamente. La cosa più complicata è stata il capire come realizzare l'effetto nel modo più semplice possibile. Chi fosse interessato, dovrebbe capirlo abbastanza facilmente visualizzando la pagina in formato HTML. Non tutti i commenti sono disponibili. Ho iniziato a scriverli all'inizio del Purgatorio, ma solo dopo la prima dozzina hanno iniziato ad essere abbastanza accurati. Quelli del Paradiso sono ineccepibili. Quelli dell'Inferno andranno riscritti completamente, per ora ho messo solo qualche nota. Abbiate un po' di pazienza... |
11/09/2010 00:00:00 | Oggi si (ri)sposa mia cugina, e per l'occasione ho aggiunto un piccolo omaggio nella paginetta dedicata a lei. Felicitazioni a lei e ad Alberto! |
02/08/2010 00:00:00 | Il celebre XXXIII canto del Paradiso si apre con la celeberrima invocazione a Maria di San Bernardo, e poi si conclude con la descrizione della visione di Dio, dove lo sforzo di Dante di raccontarci "l'indescrivibile" assume una grandezza epica. La preghiera di Bernardo si apre con le tre antitesi: "Vergine Madre, figlia del tuo figlio, umile e alta più che creatura...." dove si riecheggia il "Magnificat..." del Vangelo di Luca (1, 46), e dove in "creatura" si comprendono anche le creature angeliche. Maria è destinata "ab aeterno" da Dio ad essere la madre di Gesù, nobilitando la natura umana al punto che il suo creatore non disdegnò di essere da essa generata. Con il suo concepimento si riaccese l'amore tra Dio e gli uomini, in conseguenza del quale questa rosa celeste del Paradiso ha potuto popolarsi. Maria è esempio luminoso, fiaccola ardente di carità per tutti i beati, e giù sulla terra inesauribile fonte di speranza. Tale è il suo valore, che chi vuole grazia e non ricorre a lei, è come se volesse volare senza ali. La sua bontà è tale che non solo soccorre chiunque lo domanda, ma a volte previene spontaneamente la richiesta, come proprio per Dante ha mobilitato prima Santa Lucia e poi Beatrice, come ci ha raccontato Virgilio nel secondo canto dell'Inferno. Lei rappresenta la massima espressione possibile di misericordia, pietà, magnificenza (che va intesa come "larghezza di donare senza essere richiesti"), tutto ciò che esiste di buono in tutte le creature. Poi Bernardo indica Dante, che ha veduto tutte le anime dal più profondo dell'Inferno fino all'Empireo, e chiede che egli abbia la possibilità di elevare lo sguardo in alto fino a Dio. Bernardo, conformemente alla migliore carità cristiana, desidera che Dante possa vedere Dio più di quanto egli non abbia mai desiderato per sé stesso, e prega che le sue preghiere siano sufficienti, perché Maria dissolva ogni impedimento in modo che Dio possa manifestarsi a lui senza ostacoli. Aggiunge infine la preghiera che lei possa aiutare Dante a mantenere pure le proprie inclinazioni dopo una tale visione, ossia che egli possa poi perseverare nella virtù fino alla morte, e di mantenerne equilibrata la ragione, dopo una tale esperienza di "excessus mentis", da cui i mistici medioevali come lo stesso San Bernardo erano colti nelle loro estasi. La custodia della Vergine possa essere da freno alle sue passioni umane. Beatrice (presente nel canto con questa breve citazione come una "partecipazione speciale") e tutti i beati pregano la Vergine insieme a Bernardo. La Vergine mostra il suo assenso semplicemente muovendo gli occhi da Bernardo a Dio. Dante si strugge al cumine del suo desiderio. Bernardo gli accenna sorridendo di guardare in alto, ma Dante, ormai completamente maturo, già da solo ha alzato gli occhi e, secondo la concezione medioevale dell'ottica, inoltra il suo sguardo dentro la luce di Dio. Ciò che vede è maggiore di quanto può essere raccontato o ricordato, come chi si sveglia dopo un sogno, senza ricordare il soggetto, ma con lo stato d'animo turbato da ciò che ha provato, e così lui, anche senza ricordare la sua visione, sente ancora la dolcezza che gli ha fatto provare. Così scompare la neve al sole, così venivano dispersi al vento, come Virgilio racconta nell'Eneide, le sentenze che la Sibilla cumana scriveva sulle foglie. Dante invoca Dio di fargli grazia di ricordare qualcosa di ciò che ha provato, in modo che possa descrivere almeno una favilla della sua gloria, per renderne un'idea a noi, lettori futuri della sua opera: da questa lontana risonanza potremo concepire la sua infinita potenza. Dante, colpito dalla viva luce, si sarebbe smarrito se avesse distolto lo sguardo, perché lo stesso raggio divino dava la forza ai suoi occhi per continuare ad inoltrarsi, e per questo persevera fino a cogliere l'essenza divina. Ed esclama: "Oh, abbondante grazia di Dio, per cui ho potuto osare di esaurire in te tutta la mia capacità visiva!". La prima visione è quella dell'unità di tutte le cose in Dio: nel suo profondo è contenuto insieme, con amore, ciò che è sparso in tutto l'universo: "sustanze" (ciò che esiste per sé stesso) e " accidenti" (ciò che esiste in dipendenza dalle "sustanze") e tutti i rapporti che tra loro intercorrono, uniti insieme in modo tale che egli può darci solo una pallida idea. Ma è certo di questa visione, perché sente dilagare in lui la sua dolcezza quando ce la riferisce. Un solo attimo di tale visione è soggetto ad un oblio maggiore di quanto siano stati venticinque secoli all'impresa degli Argonauti, che sorpresero il dio Nettuno, quando egli vide dal fondo del mare passare l'ombra della loro nave Argo, la prima nave mai costruita, e quindi simbolo dell'inizio del progresso umano (datato nel medioevo nel 1223 a.C.). Con lo stesso stupore, Dante più guarda e più desidera guardare: la vista di Dio è tale che non è possibile distogliere lo sguardo, perché in esso si raccoglie tutto il bene, che è l'oggetto ultimo della volontà. Ma la sua lingua ora sarà più limitata di quella di un neonato, non perché Dio, che è eternamente perfetto, muti il suo aspetto, ma perché la sua vista, diventando più acuta, riusciva a distinguere meglio ciò che vedeva, che per questo sembrava trasformarsi. La seconda visione è quella del mistero della trinità: nella profondità di quella luce appaiono a Dante tre cerchi (o meglio, tre sfere), dello stesso raggio e di tre colori diversi. Il primo rappresenta il Padre, il secondo, che pare riflesso dal primo come un arcobaleno da un arcobaleno, rappresenta il Figlio, il terzo, che sembra un fuoco che spira dall'uno all'altro, rappresenta lo Spirito Santo. Ma quanto ci dice non è abbastanza per chiamarsi "poco". Invoca Dio per l'ultima volta: "Oh luce eterna che trovi fondamento in te sola, da sola ti comprendi, e comprendendo tutto, ami e sei benevola verso tutto!". Poi riprende: all'interno della seconda sfera (il Figlio) che sembrava di luce riflessa, gli appare la nostra effige umana, dipinta con lo stesso colore della sfera, e la fissa con attenzione. Come lo studioso di geometria tenta invano di "quadrare il cerchio", costruendo con riga e compasso un quadrato della stessa area di un cerchio dato (problema all'epoca già ritenuto insolubile, ma non ancora dimostrato impossibile), e non riesce ad ottenere ciò di cui ha bisogno ("indige"), così Dante cerca di capire come possa l'immagine umana essere adattata all'interno di quella sfera, anche se la forza del suo intelletto non è adeguata. Ma per un attimo, la grazia divina gli concede l'illuminazione suprema, e Dante finalmente comprende come egli stesso, così come ogni uomo, sia compreso all'interno dell'essenza divina. L'illuminazione della comprensione viene concessa dalla grazia Dio quando la capacità della ragione raggiunge il suo limite estremo. Questa illuminazione è il fine ultimo di tutta la Divina Commedia. Dopo questo attimo così intenso, alla capacità immaginativa del poeta iniziano a mancare le forze, e con lo stesso movimento uniforme ed armonico di una ruota che gira, il desiderio e la volontà di Dante sono dolcemente distolti da Dio, "l'Amor che move il sole e l'altre stelle". |
27/07/2010 00:00:00 | Nel XXXII canto del Paradiso San Bernardo indica a Dante alcuni dei beati più importanti, prima di prepararsi alla preghiera alla Vergine con cui inizierà l'ultimo canto. Benché tutto preso ("affetto") dalla contemplazione di Maria, Bernardo si assume liberamente il compito di illustrare a Dante la rosa dei beati: Ai piedi di Maria (nel seggio dell'ordine subito inferiore) Dante vede colei che aprì la piaga che Maria medicò e guarì (Eva, che con Adamo commise il peccato originale, perdonato solo dall'avvento di Cristo). Nei seggi che costituiscono il terzo ordine può vedere Rachele (la moglie di Giacobbe, simbolo della vita contemplativa) con accanto Beatrice (come già annunciato sin dal II canto dell'Inferno). Sotto Rachele, vede Sara (moglie di Abramo e madre di Isacco), sotto di lei Rebecca (moglie di Isacco e madre di Esaù e Giacobbe), ancora sotto c'è Giuditta (che uccise Oloferne, come la Bibbia racconta nel libro di Giuditta, 13, 8), e poi (siamo nel settimo ordine) Ruth (che, come racconta il libro omonimo della Bibbia, diventò ebrea per seguire e accudire la vecchia suocera Noemi) che è designata come bisavola (bisnonna) di Davide (secondo la genealogia citata da Matteo, 1, 5-6), che a sua volta è designato come il cantore che per dolersi del suo peccato (l'adulterio con Betsabea) compose il salmo "Miserere mei". Proseguendo verso il basso oltre il settimo grado, continuano a succedersi le più famose donne ebree, tracciando una linea di separazione della rosa in due emicicli, distinguendo i beati in base alla data di nascita di Cristo. Da una parte (a sinistra di Maria e le altre ebree) sono seduti coloro che credettero nella venuta futura di Cristo, e i seggi sono tutti occupati; dall'altra, dove si possono vedere alcuni seggi ancora vuoti, sono seduti coloro che credettero nel Cristo venuto. E come Maria e le donne ebree formano una linea di divisione, così di fronte a loro formano la corrispondente linea di divisione, a partire dal grado superiore, i seggi di San Giovanni Battista (ultimo profeta ebreo e primo santo cristiano) che, santo fin dal concepimento (Luca, 1, 15), sopportò la vita nel deserto e il martirio, e due anni di limbo (prima che Gesù risorgesse), nel grado subito sotto c'è San Francesco, sotto ancora c'è San Benedetto da Norcia e sotto di lui Sant'Agostino. San Bernardo non nomina i successivi, ma come i precedenti, si presumono essere fondatori di Ordini monastici, o meglio, estensori delle loro regole fondamentali. Bernardo fa notare a Dante come i posti siano destinati in parti uguali a beati nati prima e dopo di Cristo. Poi gli indica una divisione orizzontale, al di sotto della quale siedono anime assolte (sciolte dal corpo, o dal peccato originale) prima che potessero avere la capacità di distinguere il bene dal male, e quindi non per loro merito: come si capisce dai volti e dalle voci, sono tutti bambini. Dante è preso da un dubbio inespresso ("sile", sta in silenzio) che però Bernardo comprende e scioglie: all'interno dell'Empireo nessuna cosa è messa a caso, come non c'è posto per tristezza, fame o sete; tutto corrisponde al volere divino, come un anello al dito. Queste anime che sono venute prematuramente alla loro vera vita non sono distribuite in gradi diversi senza un motivo. Dio, che appaga tutti i beati con tanto amore per cui nessuno osa ("àusa") desiderare di più, al momento della creazione di ogni anima, la dota di una diversa quantità di grazia, e di questo non è possibile capire la causa ("e qui basti l'effetto"). Questo è espresso chiaramente nella scrittura (Genesi, 25,22), dove si narra che Esaù e Giacobbe (inviso il primo ed amato il secondo da Dio) erano in discordia già nel ventre della loro madre Rebecca. Perciò è giusto che la luce della grazia faccia aureola ("s'incappelli") secondo quanto Dio ha preordinato, che si rivela con i segni fisici ("il color d'i capelli", come nel caso di Esaù e Giacobbe, il primo rossiccio e il secondo dai capelli neri). Così i bambini, anche senza merito per la loro condotta, sono disposti in gradi diversi secondo la grazia attribuita loro da Dio al momento del concepimento (da ateo, mi piacerebbe sapere come i teologi moderni risolvono questa questione). Nelle prime generazioni umane ("ne' secoli recenti") bastava la fede dei genitori, per essere salvi; poi fu necessario che i maschi fossero circoncisi quando ancora erano nell'età dell'innocenza, e dopo l'avvento dell'era cristiana, i bambini senza battesimo sono trattenuti nel limbo (anche qui, sarei curioso di sentire la versione di qualche teologo moderno...). Poi Bernardo torna ad invitare Dante a guardare il viso della Madonna che, come madre di Cristo, ha il viso che più gli somiglia, e può prepararlo meglio alla visione di Dio. Dante vede sopra di lei una pioggia di gioia portata dagli angeli creati appositamente per questo compito, e gli suscita tanta ammirazione, che niente di ciò che aveva visto prima gli sembra così somigliante a Dio. Ed un angelo che scende con le ali aperte canta per lei: "Ave, Maria, gratia plena", ravvivando la luminosità di tutti i beati, che rispondono insieme al canto solenne. Dante chiede a Bernardo, che per lui ha sopportato di lasciare il suo seggio, chi sia l'angelo che guarda Maria con tanta gioia da sembrare innamorato. Risponde Bernardo, il cui amore per Maria lo rende bello quanto la stella mattutina (Venere) è illuminata dal Sole (anche se Venere è un pianeta, all'epoca di Dante non si faceva distinzione e si pensava che tutte le stelle riflettessero la luce del Sole), dicendo che in quell'angelo si trova tutta la baldanza e la leggiadria possibile per angeli e uomini, come è giusto che sia, poiché egli è l'Arcangelo Gabriele, che portando un ramo di palma (in segno di vittoria) annunciò a Maria la gravidanza di Cristo, quando Dio si volle caricare del nostro corpo mortale. Poi continua indicandogli altri beati importanti: i due che sono ai lati di Maria possono essere considerati le due radici della rosa celeste: quello che le è vicino alla sua sinistra è Adamo, padre del genere umano, per il cui gustare il frutto proibito, la specie umana assapora tanta amarezza. Alla destra di Maria siede Pietro, il padre della Chiesa, a cui Cristo affidò le chiavi del paradiso; accanto a lui c'è Giovanni Evangelista, che vide (nell'Apocalisse) tutte le persecuzioni e i travagli della Chiesa, ossia la sposa di Cristo, che egli sposò con il suo sacrificio (la lancia e i chiodi della crocefissione); mentre accanto ad Adamo siede Mosé, che guidò gli ebrei ancora di fede incerta, attraverso il deserto, dove furono nutriti con la manna. Dirimpetto a Pietro siede Anna, la madre di Maria, tanto contenta di vedere la figlia, che continua a fissarla anche mentre canta "Osanna"; di fronte ad Adamo siede Santa Lucia da Siracusa, che indusse Beatrice a soccorrere Dante, quando questi aveva perso ogni speranza (come sappiamo dal II canto dell'Inferno). Conclude Bernardo: "Ma poiché il tempo corre, che oltretutto, data la tua condizione mortale, ti induce stanchezza, ci fermeremo qui, come il buon sarto che produce una gonna considerando la quantità di panno che ha a disposizione, e innalzeremo gli occhi a Dio, così che tu possa penetrare con la vista nel suo fulgore per quanto ti è possibile. Ma perché tu non corra il rischio di arretrare, credendo di avanzare con le tue deboli forze, è necessario pregare per la grazia, chiedendola a colei che può aiutarti (Maria); e tu mi seguirai con la tua devozione, così che non separi il tuo cuore dalle mie parole". E Bernardo inizia la "santa orazione" che apre il prossimo canto, mentre Dante termina questo canto con i due punti che impongono un silenzio carico di una attesa solenne. Con questo XXXII canto ho completato la mia collezione dei canti della Divina Commedia, dato che il XXXIII canto è stato già aggiunto alla fine di ottobre scorso. Di quest'ultimo mi manca ancora da fare il commento, che aggiungerò nei prossimi giorni, ma del resto il commento manca anche tutti i canti dell'Inferno, ed anche i commenti dei primi canti del Purgatorio andranno rifatti con maggior cura. L'idea dei commenti è nata nel corso dei lavori, ma ho intenzione di completarli e riportarli in ordine nella pagina delle registrazioni. Considero queste registrazioni uno studio preliminare: un giorno, forse, farò delle registrazioni complete di video... ma intanto posso essere fiero di aver completato quest'opera così impegnativa! |
20/07/2010 00:00:00 | Nel XXXI canto del Paradiso prosegue la descrizione della "candida rosa" dei beati, che a Dante appaiono con le vesti bianche, come saranno dopo il giorno del Giudizio, seduti nei loro troni, nelle gradinate di un immenso anfiteatro celeste. Essi formano "la Chiesa trionfante", (in contrapposizione alla "Chiesa militante" che rappresenta la comunità dei fedeli ancora in vita), che è definita "la sposa di Cristo", redenta dal sangue del suo sacrificio. L'altra milizia santa, la schiera degli angeli, vola cantando la gloria di Dio, e come api che volano dall'alveare ai fiori, fanno una spola continua tra Dio e i beati, come messaggeri infaticabili. I loro visi sono rosso fuoco, le ali sono d'oro, le vesti più bianche della neve. Essi scendendo tra gli scanni dei beati elargiscono la pace e l'ardore di carità che ricevono volando fino a Dio. La loro presenza però non è d'ostacolo ai beati che rimirano Dio, perché la luce divina penetra in tutte le parti dell'universo proporzionalmente al merito, che qui è massimo. Questo regno è popolato di beati nati prima e dopo di Cristo, che non hanno che occhi e amore per Dio."Oh, quanto li appaga quella luce una e trina che scintilla come una stella!" esclama Dante (in veste di pellegrino che ammira lo spettacolo), che poi (in veste di scrittore tornato sulla terra) invoca: "Guarda qui in basso alle nostre tempeste umane!" E aggiunge un paragone, con un ultimo amaro accenno alla sua città natale: se i barbari (prigionieri, mercenari o invasori, non è chiaro) che abitavano quella regione settentrionale in cui la costellazione dell'Orsa Maggiore e la vicina costellazione di Boote (o del Bifolco) non tramontano mai (secondo la mitologia, Èlice - o Calisto - era una ninfa sedotta da Giove, che poi Giunone trasformò in un'orsa, e Giove in una costellazione; il figlio fu trasformato nell'altra costellazione, che gli antichi chiamavano Arctofilace, il custode dell'orsa), se essi, venendo a Roma, si stupivano della sua grandezza, vedendo il Laterano (prima sede imperiale, e poi del Papa), che superava le altre opere mortali, si immagini quanto fosse stupito Dante, giunto al regno eterno da quello umano, dal tempo all'eternità, dalla lacerata Firenze al popolo giusto e sano dell'Empireo! Lo stupore e la gioia lo fanno rimanere assorto e silenzioso. Come il pellegrino che si riposa giunto nel tempio dove aveva fatto voto di andare, e guarda attentamente, immaginando già di raccontare com'era fatto dopo il suo ritorno, così Dante passa con gli occhi per la viva luce, su e giù e tutto intorno, di gradino in gradino. Vede ovunque volti da cui traspare l'ardore di carità ("suadi", ispirati dalla carità, o che allettavano alla carità), ornati dal riso e dallo splendore di Dio, con atteggiamenti onesti e composti. Dante ha abbracciato il Paradiso con uno sguardo d'assieme, e si rivolge nuovamente verso Beatrice per farle delle domande: ma ecco un evento inatteso: al posto di Beatrice è apparso un anziano beato con la stola bianca, dal cui volto ("gene" sta per "guance") traspare una letizia piena di bontà, mite come un tenero padre. Dante spontaneamente chiede subito: "Dov'è ella?", E lui: "Beatrice ha mandato me per compiere il tuo desiderio; se guardi nel terzo gradino dall'alto, la vedrai nel trono che ha meritato". Dante guarda e la vede incoronata da un'aureola di luce. Anche se è più lontana da lui di quanto sia lontana la parte del cielo in cui si formano i tuoni dal più profondo abisso dell'oceano, Dante riesce a distinguerla benissimo, perché nessun mezzo fisico si interpone tra la sua immagine e il suo occhio. Così Dante le rivolge un saluto che è insieme un ringraziamento e una preghiera (per l'unica volta dandole il "tu" che si usa nelle preghiere): "O donna che dài forza alla mia speranza, e che per la mia salvezza hai sopportato di camminare fino all'Inferno (per chiamare Virgilio), per le tante cose che ho visto riconosco la grazia e la virtù che derivano dal tuo potere e dalla tua bontà. Tu mi hai tolto dalla servitù del peccato, con tutte le facoltà di cui disponevi. Conserva intatti dentro di me i frutti della tua munificenza, così che la mia anima si sciolga dal corpo purificata come tu l'hai resa". Beatrice si volta, lo guarda e sorride; poi torna a contemplare Dio. Riprende l'anziano beato: "Perché tu compia il tuo cammino, come mi ha pregato Beatrice, scorri con lo sguardo per le anime di questo giardino, la cui visione ti preparerà la vista alla visione di Dio. So che la regina del cielo (Maria) ti concederà la grazia, perché io sono il suo devoto San Bernardo". San Bernardo di Chiaravalle fu un monaco cistercense del XII secolo che sostenne la supremazia della rivelazione sulla ragione; la visione di Dante a volte è più vicina ad altri filosofi e pensatori medioevali, ma in questo caso il suo ruolo di intercessore presso la Vergine è particolarmente adatto perché era devotissimo a lei (ed anche Dante, come traspare ad esempio dal canto XXIII del Paradiso), ed era un mistico talmente dedito alla contemplazione, da perdere letteralmente i sensi. Così come uno straniero giunge a Roma da un paese lontano come la Croazia, per vedere la Veronica, ossia l'immagine che riproduce il volto di Gesù, rimasta impressa nel panno che una pia donna usò per ascugargli il sangue durante la salita al Calvario ("Veronica" deriva da "vera icon", che significa "vera immagine"), che incredulo si ripete "Oh mio signor Gesù, queste erano le vostre sembianze?", così rimane Dante guardando colui che, nelle sue estasi mistiche, già sulla terra aveva pregustato la pace celeste. Bernardo lo invita a riguardare il giro più alto dei beati, fino a vedere la Madonna, la regina di tutti i beati. Dante alza lo sguardo, e come la luce del mattino si rischiara a oriente mentre a occidente è ancora scuro, così vede da una parte la luce essere più forte che altrove. E come dalla parte dove si aspetta il sorgere del sole (il carro il cui timone fu guidato male da Fetonte, che si schiantò dopo averlo preso al padre Elios) la luce si fa più intensa, mentre resta minore ai lati, così quella pacifica orifiamma (lo stendardo di guerra che tradizionalmente fu dato a Carlo Magno da Cristo), ossia quella parte di candida rosa, si faceva più rossa in un punto preciso, dove Dante vede più di mille angeli festanti, con le ali aperte, ognuno diverso per splendore e movimento. Tra i loro giochi e i loro canti, vede ridere Maria, di una bellezza tale, che se anche egli avesse tanta ricchezza di espressione quanta capacità di ritenere le immagini vedute, Dante non oserebbe comunque tentare di descrivere la minima parte della delizia che deriva dalla sua bellezza. Come Bernardo vede gli occhi di Dante fissi all'ardore della carità di Maria, volge a lei il suo sguardo con tanto affetto, che rende gli occhi di Dante ancora più desiderosi di guardarla. |
10/07/2010 00:00:00 | Con il XXX canto del Paradiso lasciamo il cielo del Primo Mobile, il "maggior corpo" (costituito da materia, sia pure dalla speciale "quintessenza"), ed entriamo finalmente nell'Empireo, "luce intellettual, piena d'amore", che non è un corpo, ma pura luce, intelletto divino, al di fuori del tempo e dello spazio: siamo "nella mente di Dio". Il canto si apre con una similitudine che necessita qualche spiegazione geografica: poiché l'astronomo Alfragano stimava la circonferenza terrestre in 20.400 miglia, anche se non si sa bene a quanto corrispondesse un miglio arabo (un miglio romano corrisponde a 1.480 metri), "seimila miglia" corrispondono a circa sette ore, e poiché l'ora sesta è mezzogiorno, la perifrasi indica l'ultima ora prima dell'alba, quando il cielo inizia a rischiararsi: "Forse è mezzogiorno a seimila miglia ad est, e l'ombra della Terra si avvicina al piano orizzontale, quando lo spazio del cielo profondo inizia a rischiararsi, e le stelle, viste dalla superficie della terra, spariscono gradualmente, mentre l'alba (l'ancella del Sole) avanza, così che il cielo chiude tutte le sue finestre (le stelle), finché non sparisce anche la più luminosa". Allo stesso modo Dante vede scomparire la visione del trionfo degli angeli che circondano il punto-Dio che catturava la sua attenzione, e che in realtà circonda e comprende in sé tutti quei cori e tutto l'universo (è notevole il parallelo che può essere fatto con il nostro "io" più profondo e la rappresentazione del mondo esterno che attraverso i sensi viene ricostruita all'interno della nostra mente: "io" mi vedo nel mondo esterno, ma l'immagine del mondo che vedo è una ricostruzione fatta all'interno della mia mente). Non riuscendo più a distinguere la visione, e desiderando (come sempre) riguardare Beatrice, Dante torna con gli occhi a lei. Questa volta la sua bellezza supera ogni possibilità di descrizione: "Se tutte le lodi che ho già detto fossero qui raccolte in una sola, non sarebbero adeguate a questo compito; la bellezza che vidi non solo oltrepassa la misura della capacità umana, ma credo che solo Dio possa goderla pienamente. A questo compito mi dichiaro vinto più di qualsiasi altro scrittore di stile medio o alto (commedia o tragedia) sia mai stato superato dalla difficoltà del suo tema. Come il sole a chi ha la vista debole, il solo ricordo del suo sorriso è sufficiente a indebolire il mio intelletto. Dal primo giorno in cui vidi Beatrice nella sua vita mortale, e fino a questo momento, non mi è mai stato impedito di cantarne ("preciso" vale "reciso", "tagliato"), ma ora è il caso che io rinunci all'impresa di rendere la sua bellezza nella mia poesia, come un artista che è giunto all'ultimo limite delle sue capacità espressive". Così bella come Dante la lascia ad una voce poetica maggiore della sua (e da ciò che ha detto, pensa evidentemente ad una voce celeste, non umana), Beatrice annuncia con il tono di una guida pronta e sollecita: "Noi siamo usciti fuori del maggior corpo (il cielo del Primo Mobile) e siamo entrati nel cielo che è pura luce (l'Empireo): luce intellettuale, piena d'amore (la conoscenza); amore di vero bene, pieno di letizia (l'amore verso Dio e da lui ricambiato); letizia che trascende ogni dolcezza (lo stato di beatitudine). Qui vedrai gli angeli e i beati, e questi potrai vederli in quell'aspetto che avranno dopo il Giudizio Universale". Questa è una notevole eccezione riservata a Dante qui nell'Empireo, dato che finora ha visto solo le anime dei beati, circondate di luce, ma prive del loro corpo terreno. Un lampo improvviso avvolge Dante, rendendo i suoi occhi incapaci di percepire altri oggetti, che eccedono la sua facoltà visiva. Spiega Beatrice: "L'amore che appaga questo cielo (Dio) accoglie chi arriva con questo saluto (che rappresenta la sua grazia), per renderlo adatto alla sua visione". Infatti Dante sente già tutti i suoi sensi diventare più capaci, e la sua vista diventare in grado di sopportare una luce di qualsiasi intensità. Così inizia a scorgere una specie di fiume di luce rosseggiante che scorre tra due rive meraviglisamente fiorite; e da questo vede uscire delle vive faville che si posano in mezzo ai fiori, come rubini incastonati in monili d'oro, e poi, come inebriate dal profumo, si rituffano nelle acque luminose del torrente, da cui subito ne scaturiscono altre. Riprende Beatrice: "Il gran desiderio che hai di comprendere ciò che vedi, più mi piace quanto più cresce; ma prima di spiegarti, guarda meglio questo spettacolo. Il fiume, le pietre preziose e i fiori che vedi, non sono che apparenze provvisorie della verità, che tu non riesci ancora a distinguere bene, perché la tua vista non si è ancora fatta abbastanza forte". Non c'è un infante che, svegliato molto più tardi del solito, protenda il viso verso il latte, più velocemente di Dante che, per il desiderio di migliorare la sua visione, si china verso il l'acqua, che scorre perché chi la ammira diventi migliore. Perfezionando la sua visione, si accorge che il fiume in realtà è un lago rotondo e, come persone che si tolgano le maschere ("larve"), i fiori e le faville si mostrano essere in realtà beati ed angeli. Invoca Dante: "Oh, splendore di Dio, per cui ebbi la grazia di vedere il sublime trionfo dell'Empireo, concedimi la virtù necessaria per raccontare adeguatamente ciò che vidi!". L'uso della stessa parola "vidi" che rima solo con sé stessa ha un precedente solo nel nome di Cristo, come visto nei canti XII, XIV e XIX del Paradiso. Questa forte evidenzazione carica la parola di un significato chiave, per comprendere il quale occorre ricordare come nel canto XXVIII ci sia stato spiegato che la beatitudine si fonda nell'atto del vedere. La luce che risplende da Dio illumina questo lago, che si distende più dell'orbita del Sole; questa luce ha origine da un raggio che da Dio si riflette sulla superficie esterna del Primo Mobile, che da esso riceve la sua virtù vitale; e come un colle si rispecchia in un lago ai suoi piedi, compiacendosi di vedersi ricco di erbe e fiori, così tutto intorno al lago di luce Dante vede specchiarsi più di mille gradini circolari con tutte le anime dei beati ritornate al cielo, la loro vera dimora; e se la base del lago è più larga dell'orbita del Sole, si pensi quanto è larga questa rosa di beati nei petali più esterni! Nonostante la sua dimensione, Dante riesce a vedere tutto il panorama interamente e chiaramente: lassù, dove Dio governa direttamente, la legge naturale non vale più, e la lontananza non impedisce di distinguere perfettamente tutto ciò che si guarda. Beatrice porta Dante, che tace ma vorrebbe chiedere molte cose, fino al centro di questa rosa perpetua (dove in una rosa vera ci sono gli stami gialli), che si estende gradatamente, e si dilata, e profuma ("redòle", da "redolire", "mandare un intenso profumo") di lode (una rosa che manda un profumo di lode!) a Dio, il sole che produce una primavera eterna ("vernare" in questo caso non va inteso come "passare l'inverno", ma piuttosto come "fare primavera", la cui etimologia deriva dal latino "ver" -"primavera"- invece che da "verno" -"inverno"-). "Guarda" dice Beatrice, "quanto è grande il concilio dei beati, quanto è ampia la nostra città, e vedi quanti pochi posti siano ancora liberi (una volta completi, si riteneva sarebbe avvenuto il Giudizio Universale). E in quel seggio che già stai guardando, perché ha sopra di sé una corona (scolpita? dipinta? posata sopra? io l'ho immaginata incisa nella parte superiore dello schienale), prima che tu torni definitivamente a questo convivio celeste, siederà l'anima che in terra fu augusta (rivestita di autorità imperiale), del grande Arrigo (o Enrico VII, che nel giugno 1313 fu incoronato imperatore), che tentò di governare l'Italia prima che questa fosse pronta ad accoglierlo (ebbe molti contrasti, non riuscì a imporre il suo comando, e morì nell'agosto 1313). La cupidigia ha reso gli italiani simili al bimbo che, accecato dalla fame, irragionevolmente caccia via la balia che viene per nutrirlo. E in quel momento, sarà a capo della Chiesa un tale (Clemente V) che lo ingannerà, comportandosi con lui ufficialmente in un modo, ma segretamente in un altro. Ma Dio lo sopportarà poco tempo come papa, e presto sarà sprofondato nella bolgia dei simoniaci (Inferno XIX), dove caccerà ancor più in basso colui che venne da Alagna". Il predecessore di Clemente V fu il papa Bonfacio VIII, nato ad Anagni ("Alagna"), dove poi subì l'oltraggio dello schiaffo di Sciarra Colonna (1303, poco prima della sua morte). Nella bolgia dei simoniaci, il papa Niccolò III, conficcato a bruciare a testa in giù in un foro del pavimento, scambia Dante per il Bonifacio VIII, che sa già essere condannato a raggiungerlo, e che, conficcato nello stesso foro sopra di lui, lo farà sprofondare più in basso. Beatrice, con queste sue ultime parole dall'Empireo, ribadisce definitivamente la condanna di Bonifacio VIII, e ci comunica che alla stessa sorte è destinato anche il papa successivo. |
27/06/2010 00:00:00 | Nel XXIX canto del Paradiso Beatrice prosegue e completa il discorso sugli angeli. A noi possono sembrare ragionamenti oziosi, ma all'epoca di Dante c'era una discussione piuttosto accesa, ed egli ne approfitta per esporre il suo punto di vista, che compendia quello di molti pensatori della sua epoca, ed in questo caso San Bonaventura da Bagnoregio lo influenza più di San Tommaso. Il canto si apre con una parafrasi astronomica usata per descrivere la lunghezza della pausa che fa Beatrice riguardando il punto luminoso di Dio. Sulla sua interpretazione ci sono dubbi e quindi anche sulla durata della pausa, ma la versione che preferisco è quella che lo interpreta come circa un minuto. I figli di Latona sono Apollo e Diana, che simboleggiano il sole e la luna. Quando il sole è in Ariete si ha l'equinozio di primavera, e allora, con la luna piena in Bilancia dalla parte opposta del cielo, i due corpi celesti si possono ammirare contemporaneamente ai punti opposti dell'orizzonte, mentre uno sorge e l'altro tramonta, mentre lo zenit (il punto convenzionale del cielo sempre diritto sulla verticale) sta in mezzo a loro come il perno di una bilancia. Tanto tempo occorre ai due astri per liberarsi, staccarsi completamente dall'orizzonte (il tempo di un mezzo tramonto o di una mezza alba, circa un minuto), quanto tempo Beatrice rimane sorridendo in silenzio con gli occhi fissi al punto-Dio. Poi inizia la sua torrenziale dissertazione che occupa tutto il resto del canto: "Ti dirò quello che vuoi sapere, senza chiedertelo, perché l'ho visto là dove si fa punto ogni "dove" ed ogni "quando" (nel punto- Dio). Dio creò gli angeli, aprendosi in nuovi amori, non per acquisire un maggior bene, cosa impostulabile per la sua perfezione eterna, ma perché il suo splendore, riflettendosi in altri esseri, potesse dire "io esisto" (ossia, perché altri esseri potessero avere coscienza della propria esistenza, avendo in sé lo splendore divino), quando ad Egli piacque, al di fuori del tempo e dello spazio. Ma non pensare che prima fosse come in un torpore inoperoso, perché il tempo stesso fu creato insieme allo spazio (come secondo Sant'Agostino), nel processo della creazione di questo cielo (il Primo Mobile o cielo cristallino, chiamato anche "acqueo"). La forma (forma pura, o "atto" puro, le Intelligenze Celesti) e la materia (materia pura o "potenza" pura, gli elementi fuoco-aria-acqua-terra) iniziarono ad esistere senza imperfezioni ("che non avìa fallo"), sia assolutamente pure ("purette" è intensitivo) sia mescolate tra loro (formando i nove cieli che separano l'Empireo dalla Terra con il suo cielo infralunare), come tre frecce scagliate insieme da un arco con tre corde (che però pare non esistesse veramente). E come la luce si diffonde istantaneamente in un oggetto trasparente, così questi tre effetti della creazione iniziarono ad esistere simultaneamente, come l'ordine e la stuttura di tutte le sostanze. Nella parte alta del mondo furono poste le Intelligenze Celesti (puro atto), mentre la materia formata dai quattro elementi (potenza pura) fu posta in basso. Nel mezzo (nei nove cieli) esse crearono un legame così intricato, che non sarà mai sciolto. San Girolamo scrisse che passarono molti secoli dalla creazione degli angeli alla creazione del mondo, ma la verità è quella che ti ho detto, che se guardi bene, si può trovare in più passi della Bibbia (Gen. 1,1: "In principio Dio creò il cielo e la terra..."), e del resto anche razionalmente non sembrerebbe ammissibile che gli angeli, in quanto Intelligenze Celesti e Motori dei vari cieli, siano rimasti a lungo inoperosi e quindi incompleti (argomento derivato da Aristotele). Dopo la loro creazione, non si sarebbe potuto contare fino a venti, che una parte degli angeli (secondo quanto è scritto nel Convivio, la decima parte) cadesse, turbando il più basso degli elementi terreni (la terra), mentre gli altri iniziarono la loro contemplazione di Dio, ed il loro vorticoso ruotare, che non finirà mai. Causa della caduta fu la superbia di Lucifero, che hai potuto vedere imprigionato al centro di tutti i pesi del mondo. Quelli che vedi qui, ebbero l'umiltà di riconoscere la propria esistenza come dono della bontà di Dio, che li aveva creati predisposti ad una così alta comprensione. Così la loro virtù visiva e intellettuale fu accresciuta dalla grazia e dal loro merito, tanto che la loro volontà diventò pienamente e definitivamente coincidente con quella di Dio. Non devi dubitare del fatto che ricevere la grazia costituisca anche un merito, perché essa è concessa in proporzione al desiderio di riceverla (come secondo San Bonaventura). Adesso hai già una buona conoscienza di questa comunità di angeli, anche senza altri aiuti. Ma poiché in terra si insegna ("si legge") in alcune scuole che la natura angelica è tale che capisce, si ricorda ed ha la volontà, parlerò ancora per farti vedere la verità che si equivoca in quell'insegnamento: poiché gli angeli sono costantemente in contemplazione di Dio, dove è compresente ogni verità, e non sono mai distolti da un oggetto di attenzione diverso, essi non hanno bisogno della facoltà della memoria; così chi insegna diversamente sogna ad occhi aperti, credendo (o, cosa ancor più colpevole e vergognosa, senza neanche crederlo) di dire il vero. Ma quando voi fate filosofia, non percorrete la sola via della verità, e vi perdete per il gusto e la preoccupazione (il pensiero) di apparire originali. Questo può anche essere tollerato, ma non quando per esso si mettono in secondo piano gli insegnamenti delle Sacre Scritture, o peggio ancora, si distorgono sofisticamente per sostenere dei teoremi filosofici personali. Si dimentica quanto sangue di martiri è costata la sua diffusione nel mondo, e come sia gradito a Dio chi si accosta umilmente alle Scritture. Invece ognuno, per apparire originale, s'ingegna a proporre le proprie invenzioni, che poi vengono predicate al posto del Vangelo. Ad esempio, c'è chi sostiene (tra gli altri, San Tommaso e Alberto Magno), che quando il cielo diventò buio nell'ora della morte di Gesù, fu perché la luna provocò un'eclissi, muovendosi indietro verso il sole (poiché ciò avvenne il venerdì di Pasqua, avrebbe dovuto essere quasi piena, in opposizione al sole): ma dice il falso ("mente" non è probabilmente inteso qui come "volontà di ingannare"), perché la luce si nascose da sé (come secondo San Bonaventura), ed infatti sparì per tutti, anche per gli spagnoli e gli indiani, non solo per gli ebrei (come sarebbe stato nel caso di una eclissi). Non ci sono in Firenze tante persone che si chiamano "Lapo" e "Bindo" (diminutivi di "Iacopo" e "Ildebrando", nomi all'epoca molto diffusi), quante favole come questa si gridano ovunque dal pulpito ("pergamo"), così che i fedeli tornano a casa nutriti d'aria, ma questa ignoranza del danno che subiscono non può giustificare la mancata conoscenza che dovrebbero avere del Vangelo. Gesù non invitò i suoi apostoli a predicare ciance, ma gli diede un insegnamento vero, che risuonò nelle loro predicazioni, ed il Vangelo fu il loro lo scudo e la loro arma. Adesso si predica con battute di spirito e con lazzi ("iscede"), e se gli uditori ridono, i frati gongolano gonfiando il cappuccio di orgoglio, e non chiedono di più. Ma se il volgo vedesse l'uccellaccio satanico nascosto nella punta del loro cappuccio (il "becchetto"), vedrebbe quanto valgono le indulgenze di cui si fida tanto: fiducia mal riposta, cresciuta in modo tanto stolto, che ormai si correrebbe ad ogni promessa di indulgenza, anche senza alcuna prova di validità. Di questa credulità, i frati dell'ordine di Sant'Antonio (che era rappresentato con un porco ai piedi, simbolo del demonio di cui aveva vinto le tentazioni), ingrassano il loro porco (i frati avevano fama di avidità e allevavano maiali con i proventi delle indulgenze), ed altri che che sono più porci ancora (le loro concubine e i loro figli illegittimi), pagando con una moneta senza valore (le indulgenze non valide che essi vendevano). Ma per non divagare troppo, concludiamo la disquisizione sugli angeli, senza perdere altro tempo: il loro numero è talmente alto, che non può essere espresso a parole e nemmeno immaginato dalla mente umana; se consideri il racconto di Daniele, ti renderai conto che il numero che indica è puramente simbolico (Daniele, VII, 10: "Mille migliaia Lo servivano, e miriadi di miriadi stavano davanti a Lui", dove "miriade" tecnicamente vale diecimila, ma generalmente sta a significare un numero enorme). La luce divina, che si irradia in tutte le Intelligenze Celesti, viene raccolta da esse in tanti modi, quanti sono gli angeli che ne fanno parte. Perciò, poiché l'ardore del loro amore verso Dio è proporzionale alla conoscenza intellettiva che ne hanno, la loro beatitudine ("d'amar la dolcezza") ha per ognuno una diversa intensità (fervore o tepore). Adesso puoi comprendere l'altezza sublime e la magnificenza di Dio, che si rifrange in tutte le sue creature come in tanti specchi, pur rimanendo Uno e immutabile come sempre è stato". |
16/06/2010 00:00:00 | Dopo che, alla fine del canto precedente, Beatrice, che esalta a gioie paradisiache la mente di Dante, gli ha reso evidente la misera condizione della vita degli uomini, in questo XXVIII canto del Paradiso pare a Dante di vedere negli occhi di lei (che per primi catturarono il suo amore) un lume riflesso come chi vedesse riflesso in uno specchio un candelabro a due candele posto alle sue spalle, e si volta per vedere se la realtà si accorda con la visione come fa il canto con la musica. Così, dal Primo Mobile o Cielo Cristallino in cui si trova, vede in alto un punto che spende tanto da abbagliare chiunque lo guardi, malgrado sia di dimensioni così piccole che la stella più piccola, al suo confronto, sembrerebbe grande come la luna. Intorno ad esso, distante quanto l'alone prodotto da una nebbia spessa intorno a un astro, era situato un cerchio di fuoco che girava così velocemente, che avrebbe vinto anche il velocissimo cielo Primo Mobile. Un secondo cerchio di fuoco lo circondava, e poi un terzo, e un quarto, un quinto e un sesto. Il settimo era così grande che un arcobaleno intero (Iride, la messaggera di Giunone) sarebbe stato stretto a contenerlo. Ancora più ampi l'ottavo e il nono cerchio di fuoco. Gradualmente, i cerchi più lontani giravano più lentamente di quelli più vicini, che avevano anche la luce più fulgente. Dante li guarda con una grande ansia di conoscenza, così Beatrice spiega: "Dal punto centrale, dipende tutto il cielo e tutta la natura (è Dio). Il cerchio che gli è più vicino si muove più velocemente per l'ardente amore che lo spinge". Dante però osserva che il mondo materiale non è strutturato in modo uguale a questi cerchi concentrici, perché i cieli si muovono più velocemente man mano che si allontanano dal centro, e dunque se qui nel Primo Mobile (che ha per confine solo l'amore e la luce dell'Empireo) egli deve conoscere il rapporto tra il mondo fisico e il mondo ideale, deve capire il perché di questa differenza. Così Beartice spiega: "Non meravigliarti se le tue dita non sono sufficienti a sciogliere questo nodo, che si è indurito perché nessuno ha mai tentato di scioglierlo. Ascolta e rifletti su quanto ti dico: i cerchi dei cieli sono larghi e stretti secondo la quantità di virtù infusa in ogni loro parte; maggiore bontà, vuole produrre maggiore influsso benefico, e per contenerlo è necessario un corpo più grande, se le sue parti sono ugualmente dense. Ma se ti concentri sulla quantità di virtù, e non sulle dimensioni fisiche, vedrai che l'intelligenza che governa ciascun cielo corrisponde ad esso in modo preciso, maggiore con maggiore e minore con minore". Così Dante risolve i suoi dubbi e la sua mente torna come il cielo sereno quando soffia il vento di Maestrale (corrispondente alla guancia destra della rappresentazione iconografica del vento di Borea) che pulisce ogni nuvolaglia ("roffia") in ogni angolo ("paroffia" sta per "parrocchia") del cielo, e la verità gli torna visibile e chiara come una stella in cielo. Dante desiderava comprendere questa corrispondenza perché i nove cerchi infuocati intorno al punto-Dio corrispondono alle nove gerarchie angeliche che sono le intelligenze motrici dei nove cieli che abbiamo attraversato. Terminata la spiegazione, i giri angelici sfavillano come ferro incandescente, e gli angeli - scintilla gli appaiono essere così tanti, che il loro numero supera quello ottenuto quando si raddoppia una cifra per ogni casella degli scacchi. Questo verso allude alla storia secondo cui il re di Persia offrì una ricompensa all'inventore degli scacchi, e questi gli chiese un chicco di grano per la prima casella, due per la seconda, quattro per la terza, e così via, raddoppiando per ogni casella fino alla sessantaquattresima. Si potrebbe pensare che un sacco di grano potrebbe bastare, ma il numero di chicchi totale corrisponde a oltre 18 miliardi di miliardi, che è stato stimato essere equivalente al raccolto mondiale di 1500 anni. Tutte le gerarchie angeliche cantano le loro lodi a Dio, e Beatrice, vedendo il desiderio di Dante, continua a spiegare: "I due primi cerchi sono Serafini e Cherubini, e girano così veloci intorno al punto che li tiene legati dall'amore, perché somigliano a Dio in modo proporzionale alla loro visione. Il terzo giro è quello dei Troni del divino aspetto, dove Dio si siede quando emette i suoi giudizi, e con i quali è stata conclusa la prima gerarchia angelica. Tutti partecipano alla gioia divina nella misura in cui la loro vista si inoltra nel vero che appaga ogni intelletto. Da qui si può capire come la beatitudine si fonda nell'atto del vedere, e poi nell'amore che da questo segue, mentre la visione è concessa in base al merito, che si acquista con la buona volontà e la grazia di Dio. La terna angelica successiva, che fiorisce in questa eterna primavera (in cui Ariete non è mai notturno, ossia è sempre congiunto con il Sole, ossia è sempre Marzo-Aprile), canta in perpetuo "Osanna" con tre melodie, corrispondenti ai tre ordini di letizia da cui è composta: Dominazioni, Virtù e Potestà. Negli ultimi tre ordini, troviamo Principati ed Arcangeli, e l'ultimo è tutto una festa di Angeli propriamente detti. Tutti questi ordini guardano ammirati in alto, e fanno sentire la loro influenza tirando gli inferiori a sé, essendo attratti da Dio e attraendo verso l'alto gli ordini inferiori e ogni altra cosa. Questa gerarchia è stata descritta da Dionigi l'Aeropagita, anche se poi papa Gregorio Magno propose una gerarchia diversa, ma poi, quando risorse qui a nuova vita celeste, rise di sé stesso constatando il suo errore. Ma non meravigliarti se Dionigi ha rivelato questo ordine in modo corretto: infatti gli fu rivelato, insieme ad altre verità sul Paradiso, direttamente da San Paolo, che ebbe la grazia di vedere questi cieli". In realtà gli studiosi moderni attribuiscono il "De Coelesti Hierarchia", che è la fonte originale di Dante, non a San Dionigi, giudice dell'aeropago ateniese convertito da San Paolo, ma ad un secondo Dionigi l'Aeropagita, denominato per distinguerlo "pseudo Dionigi", teologo bizantino del V secolo. |
03/06/2010 00:00:00 | Il XXVII canto del Paradiso si apre con un grandioso coro di tutti i beati di gloria "al Padre, al Figlio, a lo Spirito Santo", che inebria Dante, a cui sembra di vedere il "riso de l'universo", e prorompe in esclamazioni sulla beatitudine celeste, gioia perfetta senza più l'ansia del desiderio. Poi però il canto prende un'altra piega: delle quattro anime di fronte a Dante, quella che per prima gli si era presentata (San Pietro), comincia a cambiare il suo colore come potrebbero fare Giove e Marte, se fossero uccelli che scambiassero tra loro le penne, diventando cioè di un rosso vivace. Nel frattempo, secondo la disposizione della provvidenza che organizza le vicende e i compiti di tutte le anime, si fa ovunque un grande silenzio, e San Pietro inizia la sua celebre invettiva contro la corruzione della Chiesa: "Se ho cambiato colore io, non meravigliarti di come vedrai mutare il colore di tutti mentre parlo. Colui che usurpa in terra il soglio pontificio (il papa Bonifacio VIII), che manca della presenza di Cristo (Dante riteneva legittima l'elezione di Bonifacio, ma giudicava indegna la persona), ha trasformato la mia tomba in una fogna che raccoglie il sangue delle discordie e il fetore delle turpitudini e della corruzione, cosa di cui si compiace Satana, il perverso che cadde dal cielo, fino al centro della Terra". Dante si guarda intorno e vede tutti i beati dello stesso colore rosso che si dipinge nelle nuvole quando il sole le illumina dal basso all'alba o al tramonto. Anche Beatrice ha mutato colore come una donna onesta che arrossisce ascoltando le colpe altrui. In tal modo si dipinse il cielo quando si oscurò al momento della morte di Cristo. La voce di Pietro, anch'essa mutata come il suo aspetto, prosegue: "La sposa di Cristo, la Chiesa, non fu nutrita del sacrificio mio, di Lino (il secondo papa), di Cleto (o Anacleto, terzo papa), perché diventasse un mezzo per arricchirsi, ma solo per raggiungere la beatitudine celeste; per questo anche i papi Sisto (II sec.), Pio (II sec.), Calisto (III sec.) e Urbano (III sec.) subirono il martirio e piansero per le persecuzioni di cui la Chiesa era vittima. Non era previsto che il papa si arrogasse il potere di distinguere i fedeli da salvare e quelli da condannare, né che le chiavi del cielo che mi furono affidate diventassero un simbolo sulle bandiere di armate mosse contro altri cristiani battezzati (probabile allusione alla crociata di Bonifacio contro i Colonna, di cui si parla proprio nel XXVII canto dell'Inferno), né che la mia immagine fosse apposta come sigillo su privilegi concessi per denaro e non per benemerenze, cosa che mi riempie di vergogna e sdegno. Da qui si vedono i falsi pastori aggirarsi nei pascoli come lupi rapaci, ed ora anche le genti di Cahors e di Guascogna (i futuri papi Giovanni XXII e Clemente V) si preparano ad approfittarne. Ma come la Provvidenza difese Roma da Annibale, mandando Scipione l'Africano, così provvederà presto al soccorso della Chiesa, come io vedo leggendo nella volontà di Dio. E tu, che per il peso del tuo corpo mortale, tornerai di nuovo sulla Terra, parla e riferisci senza nascondere quello che io non ti ho nascosto". In questo modo Dante ribadisce la sua missione, come già gli avevano detto Cacciaguida (Paradiso XVII) e Beatrice (Purgatorio XXXII). La luce dei beati torna ad essere bianca e tutti si levano verso l'alto come una nevicata invernale, quando il sole è congiunto con il Capricorno, che però sale invece di cadere verso il basso. Quando l'aria interposta diventa troppa per poterli distinguere, Beatrice invita Dante a guardare quanto si è mossa la Terra nel frattempo, ed egli vede che ha compiuto un quarto di giro: sotto di loro si trova Cadice, e verso occidente vede il mare aperto dove Ulisse (come narrato nel XXVI canto dell'Inferno) aveva intrapreso il suo "folle volo"; dall'altra parte, vede fino alle coste di Creta (o della Fenicia) dove Giove si tramutò in toro per rapire la ninfa Europa, di cui si era innamorato. Ci spiega Dante che avrebbe potuto vedere di più, ma parte della Terra ("aiuola" intesa come "piccola aia") era oscurata perché il Sole era spostato da lui di circa 45 gradi (un segno e mezzo dello zodiaco). L'attenzione di Dante è di nuovo attirata da Beatrice, che desidera sempre ricondurre a lei il suo sguardo; se la natura o l'arte fecero mai delle esche per gli occhi, per catturare il cuore, sia nei corpi fisici delle persone o nelle pitture che ritraggono belle immagini, tutte queste bellezze non sarebbero niente in confronto al piacere divino che risplende in Dante attraverso il viso sorridente di Beatrice. E la virtù che questa visione gli concede lo fa staccare dalla costellazione dei Gemelli (Castore e Polluce, nati dall'uovo di Leda, amata da Giove trasformato in cigno), ed entrare nel nono cielo, il Primo Mobile, la cui velocità sopravanza quella di tutti gli altri cieli. Questo è detto anche Cielo Cristallino, perché non contiene stelle da cui Dante possa dedurre la sua posizione. Beatrice sorride così lieta "che Dio parea nel suo volto gioire", e spiega che la natura del mondo tiene fermo il centro dell'universo (la Terra) e fa ruotare tutto il resto intorno ad esso, iniziando (e terminando) in questo cielo, che non ha altra collocazione se non nella mente di Dio, l'Empireo, dove hanno origine l'amore e la virtù che fanno girare il Primo Mobile e che poi esso trasmette verso le sfere inferiori. Come una sfera, esso è circondato dall'Empireo, che è luce ed amore, così come esso comprende le sfere sottostanti, ma questa recinto è solo metaforico, e comprensibile solo da colui che lo contiene (Dio). Per tentare di orientarci, è utile sapere che nel Convivio Dante afferma che l'Empireo è il sovrano edificio del mondo, che contiene tutto l'universo, e al suo esterno non esiste niente: esso non è in alcun luogo, ma è formato nella mente di Dio. Il "Primo Mobile" sarebbe dunque anche il "Primo Luogo" definito, in questo Empireo astratto. Il suo moto non si paragona a nessun altro, ma tutti sono misurati attraverso di esso, come il numero dieci è composto dai numeri primi due e cinque. Poiché esso è il moto fondamentale dell'universo, Dante può comprendere come il tempo stesso abbia le sue radici in questo vaso (testo), e tenga le fronde nei cieli inferiori, dove il movimento diventa visibile. Beatrice conclude il canto con la deplorazione degli uomini, incapaci di alzare gli occhi a queste altezze celesti, perché perduti nell'avidità dei beni materiali. Il desiderio di bene è innato nell'uomo, ma le cattive influenze trasformano i buoni frutti (le susine vere) in frutta guasta (il bozzacchione è una susina ingrossata e senza polpa). Solo i bambini hanno fede e innocenza, ma la perdono prima della pubertà. Alcuni, da piccoli, ancora balbettanti, osservano i periodi di digiuno e di astinenza, e poi, cresciuti, esperti nel parlare, sono ingordi e non badano più ad alcun precetto. Altri, da piccoli, amano ed ascoltano la madre, ma una volta cresciuti sono insofferenti e desiderano solo la sua eredità. Così il desiderio dei beni terreni corrompe il bell'aspetto della figlia del Sole (la Chiesa o forse Circe come simbolo dell'allettamento dei beni terreni, se così è da intendere questa controversa terzina). Ma non deve meravigliare che la famiglia umana sia così deviata, se si pensa che in terra gli uomini non hanno né un papa che rappresenti Dio, né un imperatore che abbia un vero potere temporale. Ma prima che il ritardo di data che si accumula ogni anno, a causa della frazione di tempo trascurata (che era già conosciuta, anche se sarà risolta con l'istituzione del calendario Gregoriano nel 1582), riesca a far uscire completamente Gennaio dall'inverno (cosa che sarebbe avvenuta in circa 9000 anni), questi cieli manderanno i loro influssi in modo da provocare la tempesta (il fortunale) tanto attesa, che farà cambiare rotta alle navi, così che la flotta si dirigerà sicura verso la meta, e finalmente dai fiori nasceranno dei veri frutti. |
18/05/2010 00:00:00 | Nel XXVI canto del Paradiso si conclude l'esame su Fede, Speranza e Carità che Dante sostiene nell'Università Celeste di fronte a San Pietro, San Giacomo e San Giovanni. Dante è ancora abbagliato quando Giovanni si rivolge a lui: "Mentre attendi di riacquistare la vista, approfittane per ragionare e dimmi a cosa aspira la tua anima, e tranquillizzati perché la tua vista è solo smarrita: infatti la donna che ti guida per queste regioni divine ha nei suoi occhi la virtù che Ananìa ebbe nelle mani". Ananìa fu uno dei primi cristiani di Damasco, che battezzò San Paolo facendogli riacquistare la vista, che egli aveva perso quando fu folgorato dall'apparizione di Cristo, per l'appunto sulla via di Damasco. È da notare che San Paolo era stato citato nel secondo canto dell'Inferno, quando Dante aveva espresso a Virgilio il suo timore di non essere all'altezza di una tale impresa, insieme ad Enea, al quale si è già paragonato nel XV canto. Dante risponde: "Ella a suo piacere mi guarisca gli occhi, che furono le porte da cui entrò per prima con il fuoco della carità, di cui ancora ardo. Il bene che regna qui in Paradiso (Dio) è principio e fine (Alfa ed Omega, rappresentato con una "O") di tutto ciò che l'Amore mi insegna (mi legge)". Giovanni lo sprona ad approfondire: "Chiarisci chi diresse il tuo amore verso Dio". E Dante: "Sono stato indirizzato a questo amore sia dal ragionamento razionale che dall'autorità che deriva direttamente dai cieli. Poiché quando si riconosce il bene, esso suscita tanto amore quanto più esprime la sua bontà; se si riconosce la verità di questo argomento, è naturale che la mente rivolga il suo amore verso l'essenza che in bene supera tanto le altre, che esse sono solo riflessi dei suoi raggi. Questa verità mi è spiegata da colui (forse Aristotele) che dimostra l'origine dell'amore di tutti gli esseri immortali (uomini e angeli), poi la spiega la voce stessa di Dio che promise a Mosé di mostrargli tutte le cose buone (Esodo, XXXIII, 19), ed anche tu stesso lo hai spiegato all'inizio del tuo Vangelo, che rivela i misteri celesti giù nella Terra, più che ogni altro messaggio". E Giovanni: "Il più grande dei tuoi amori è rivolto verso Dio dalla ragione umana e dall'autorità delle scritture; ma dimmi se senti altri stimoli che ti spingono a lui, ed esprimi quali sono le loro cause". Dante capisce bene la domanda dell'Aquila di Cristo (l'aquila è il simbolo di San Giovanni) e risponde: "Alla mia carità hanno concorso tutti gli stimoli che fanno amare Dio: L'esistenza del mondo, la mia stessa esistenza, il suo sacrificio per la nostra redenzione, e la promessa della nostra beatitudine eterna. Queste cose, insieme alla conoscenza che ho detto, mi hanno tolto dall'amore fallace per i beni terreni e posto sulla riva dell'amore vero. E tutte le cose create da Dio, mi stimolano amore nella misura in cui riflettono l'amore che Dio ripone in loro". A questo punto si leva un coro di approvazione di tutte le anime, Beatrice compresa, e Dante riacquista la vista, con una descrizione tecnica che egli riprende dall'opera di Alberto Magno, secondo cui lo "spirito visivo" va incontro alla luce che attraversa le membrane dell'occhio. Inizialmente la sua vista è confusa ed egli non riesce a distinguere le immagini, come una persona appena svegliata, ma poi si accorge di vedere meglio che in precedenza. Allora vede che è apparsa una quarta anima accanto ai tre apostoli, e Beatrice spiega che si tratta di Adamo, la prima anima umana creata da Dio. Dante si inchina reverente come un albero piegato dal vento, poi si rivolge a lui, unico uomo creato già adulto, a cui ogni sposa è figlia e moglie di un suo figlio, chiedendogli di rispondere alle domande che però non gli formula, sapendo che Adamo le può leggere benissimo nella mente di Dio. La luce che riveste l'anima di Adamo si muove manifestando il suo desiderio di rispondere come il rivestimento che copre un animale che si agita. Conferma di vedere cosa vuole sapere Dante nello specchio del vero (Dio) che riflette tutte le cose nella loro vera forma, mentre niente può riprodurre la sua immagine intera. Dante desidera sapere quattro cose: Quanto tempo è passato dalla creazione di Adamo (e dunque del genere umano), quanto tempo egli restò nel Paradiso Terrestre (dove Beatrice rese Dante degno di salire alle stelle), il vero motivo della sua condanna da parte di Dio, e quale fu la lingua che egli si inventò per parlare. Questi quesiti possono apparire marginali ma erano dibattuti ai tempi di Dante ed egli qui approfitta per dare le sue risposte definitive, a correzione di alcune sue idee precedenti (in particolare l'ultima). Adamo inizia a rispondere dalla terza, che è la più importante: la causa della cacciata dall'Eden non fu il semplice fatto di aver assaggiato la mela (che sarebbe stato un peccato di gola), ma l'aver trasgredito al divieto di Dio. Una volta morto, Adamo finì nel limbo (da dove Beatrice fece muovere Virgilio in soccorso di Dante) e lì rimase per quattromilatrecentodue anni (cronologia ripresa da San Girolamo che si rifaceva al "Chronicon" di Eusebio di Cesarea), finché Cristo, asceso ai cieli, lo portò con sé in Paradiso. Durante la vita, vide il Sole passare in tutte le costellazioni dello zodiaco per novecentotrenta volte (questa età è ripresa da Dante dalla Genesi, V, 5). Poiché Gesù morì a 33 anni nel 34 d.C., si può datare la creazione di Adamo nel 5198 a.C. Poi spiega che prima che i sudditi di Nembròt (che abbiamo trovato nel XXXI canto dell'Inferno parlare una lingua incomprensibile) si accingessero alla costruzione impossibile da completare della torre di Babele, si era già estinta la lingua che egli si inventò, perché i gusti degli uomini cambiano con gli influssi degli astri, e nessuna opera dell'ingegno è immortale. La natura ha dato all'uomo la facoltà di parlare, ma il modo è lasciato al gusto umano. Ad esempio, Adamo chiamò Dio usando la parola "I", mentre in seguito gli ebrei usarono la parola "El". Le parole degli uomini si avvicendano come le foglie su un ramo. Infine, Adamo specifica il tempo che passò nel Paradiso terrestre, prima e dopo il peccato per cui fu condannato: dalla prima ora (le sei del mattino) a quella che segue l'ora sesta, quando il cielo muta quadrante, ossia entra nella seconda metà del giorno, ossia dopo mezzogiorno, ossia all'una del pomeriggio: in totale sette ore solamente. Questa informazione Dante la ricava dall'opera di Pietro Mangiadore, che abbiamo incontrato nel XII Canto, nel cielo del Sole. |
04/05/2010 00:00:00 | L'inizio del XXV canto del Paradiso è molto particolare, perché è l'unico passo della Divina Commedia in cui Dante parla esplicitamente dell'esilio a cui è stato condannato, mentre altrove è sempre riportato come vaga profezia futura, che si lascia intendere essere ancora da verificarsi al tempo fittizio in cui il personaggio-poeta, una volta ritornato, riferisce il suo viaggio. Eccezionalmente, in questo passo il tempo diventa quello effettivo di Dante al tempo in cui veramente scriveva queste righe, quando ormai era cosciente del suo valore di poeta, dell'importanza del suo poema e della probabile irrevocabilità della sua condanna all'esilio. "Se accadesse mai che il poema sacro, alla cui creazione hanno concorso l'esperienza terrena e la scienza divina, e sul quale mi sto consumando da molti anni, vinca l'odio dei Guelfi Neri che mi tiene lontano da Firenze, dove ho vissuto la mia infanzia, e sono divenuto poi un nemico per i malvagi che tengono la città in continue lotte, allora tornerò come poeta di maggiore importanza, con l'aspetto invecchiato, e sarò coronato di alloro (il "cappello" dei poeti) sullo stesso fonte battesimale di San Giovanni, dove, essendo stato battezzato da bambino, entrai nella fede che rende le anime grate a Dio, e per la quale fede (nel canto scorso) San Pietro mi ha cinto la fronte". Poi un'altra anima esce dalla stessa corona da cui era uscito San Pietro, il primo dei vicari terreni di Cristo, e Beatrice lo invita ad ammirarlo: è San Giacomo (o Iacopo, che deriva dall'ebraico "Ya'aqob"), fratello di San Giovanni e figlio di Zebedeo (detto "Giacomo maggiore" per distinguerlo dall'altro apostolo Giacomo di Alfeo, detto "il minore"), a cui è dedicato il santuario di San Giacomo di Compostella, in Galizia, nella Spagna nord-occidentale. San Giacomo saluta San Pietro con una specie di danza simile a quella di due colombi che si dimostrano affetto, poi entrambi si fermano davanti a Dante, accesi d'uno splendore tale che egli abbassa il volto. Beatrice sorride rivolgendosi a San Giacomo: "O anima gloriosa, che scrivesti della generosità del Paradiso," (si riferisce all'epistola di San Giacomo, che oggi però è attribuita a San Giacomo minore), "interroga Dante sulla speranza, tu che la hai rappresentata ogni volta che Gesù ha mostrato predilezione per voi tre" (San Pietro, San Giacomo e San Giovanni erano i tre apostoli prediletti da Gesù). Così San Giacomo invita Dante ad alzare lo sguardo, ed a rassicurarsi: chi arriva ai cieli, deve rafforzare la sua vista, che Dante aveva distolto come gravato dal peso eccessivo delle loro autorità, e lo interroga: "Poiché la grazia di Dio ti concede di incontrare i maggiori beati in questi cieli altissimi prima della morte, perché al tuo ritorno tu possa confortare gli altri uomini con la speranza, che accende l'amore del vero bene, dimmi che cos'è la speranza, quanta ne coltivi dentro di te, e da dove ti viene". Beatrice si intromette per rispondere al secondo quesito, in modo opportuno, per evitare che una risposta diretta da parte di Dante possa essere interpretata come presunzione: "Tra tutti i fedeli viventi (la Chiesa militante), non c'è nessuno che abbia maggior fede di lui, come tutti i beati possono vedere leggendo nella mente di Dio. Per questo gli è stato concesso di lasciare l'Egitto (simbolo della vita terrena) per visitare Gerusalemme (simbolo del Paradiso), prima dei termini della sua vita. Agli altri due punti, può rispondere da solo, senza sospetti di vanteria, perché con le sue dichiarazioni gli sia concessa la grazia di Dio". Così inizia Dante, citando il filosofo Pietro Lombardo: "La speranza è un'attesa certa della futura beatitudine, che viene dalla grazia di Dio e dai meriti acquisiti con la propria opera; questa certezza mi viene da molte fonti, ma il primo da cui l'ho ricevuta è Davide, che fu autore dei Salmi, dove si cantano le lodi di Dio, e dove è detto (Salmo IX, 11): 'Sperino in te, coloro che conoscono il tuo nome', come lo conosce chiunque abbia la mia fede; ed anche la tua epistola, San Giacomo, invita alla speranza (c'è un cenno al premio eterno che Dio promette a chi vince le tentazioni, ai poveri, agli umili). Così ho tanta speranza da poterne riversare sugli altri". L'anima di San Giacomo si accende in bagliori di luce, poi chiede di nuovo a Dante cosa gli prometta la speranza. E Dante continua: "Il Nuovo e il Vecchio Testamento dicono cosa è promesso alle anime nella grazia di Dio. Isaia (LXI, 7) dice che ogni beato tornerà nella sua terra, ossia qui in Paradiso, con una doppia veste (cioè con l'anima e con il corpo); ed inoltre lo spiega anche tuo fratello San Giovanni (Apocalisse, VII, 9), dove parla delle vesti bianche di tutti i beati (ossia, dei loro corpi)". A queste parole risuona una voce che riprende il Salmo di Davide: "Sperent in te", e le corone di beati riprendono la loro danza. In una di esse, un altro lume si accende di tale luce, che se fosse una stella nella costellazione del Cancro, che è visibile nel cielo notturno in inverno, illuminerebbe la notte in modo tale che l'inverno avrebbe un intero mese illuminato continuamente. E come una fanciulla che danza innocentemente per festeggiare la sposa, la terza luce si unisce alle prime due, che si muovono al ritmo del canto, mentre Beatrice, senza distogliere da loro lo sguardo, spiega a Dante che si tratta di San Giovanni, che durante l'ultima cena appoggiò la testa al petto di Cristo (indicato con il simbolo del pellicano perché secondo la tradizione esso nutriva i figli con il proprio sangue), e che Cristo sulla croce elesse a prendere il suo posto di figlio per avere cura di Maria (Giovanni, XIX, 27).Poiché secondo la tradizione medioevale San Giovanni sarebbe salito al cielo con il corpo terreno, Dante cerca di scrutare nella sua luce, come chi cerca di distinguere un'eclissi parziale di sole, abbagliandosi fino ad una temporanea cecità. Ma San Giovanni lo ammonisce: "Perché cerchi di vedere qualcosa che non c'è? Il mio corpo è polvere sulla terra, come tutti gli altri, fino al giorno del Giudizio; solo il Cristo e Maria sono saliti all'Empireo con i loro corpi terreni, e questo è ciò che dovrai riferire nel mondo terreno". È interessante notare che il dogma dell'assunzione ai cieli di Maria insieme al suo corpo è stato affermato ufficialmente dalla Chiesa solo nel 1950. A questa voce, le corone dei beati cessano le danze e i cori, come i rematori si fermano prontamente al segnale del nocchiero. Dante si volge verso Beatrice, ma rimane turbato nel constatare che essendo ancora abbagliato, non riesce a vedere niente, benché fosse vicino a lei e nel mondo felice del Paradiso. |
25/04/2010 00:00:00 | Ieri pomeriggio ho partecipato all'evento "Mare e Poesia" che si è tenuto al Museo della Marineria di Viareggio. Ho letto "Il battello ebbro" di Rimbaud, in una riduzione della traduzione che ho composto a partire dalle traduzioni di cui disponevo, cercando di rispettare una corrispondenza verso-per-verso, ma rielaborando dove la metrica, per quanto abbastanza libera, lo ha reso necessario. L'originale è formato da 100 endecasillabi in rima ABAB, io non ho preteso tanto, ma spero di aver fatto un buon lavoro. Il pubblico ha apprezzato la versione ridotta (72 versi). Ho preparato la pagina "Il battello ebbro", dove ho pubblicato la versione integrale, riportando insieme alla registrazione in formato mp3 anche il testo che ho messo insieme. Spero che apprezzerete. |
24/04/2010 00:00:00 | All'inizio del XXIV canto del Paradiso, Beatrice si rivolge agli Apostoli, coloro che insieme a Gesù, l'Agnello di Dio, parteciparono all'ultima cena, che qui simboleggia la beatitudine celeste, invitandoli a condividere con Dante, per la grazia che gli ha concesso di visitare i cieli ancora in vita, le briciole della sapienza da cui essi sono illuminati. Per manifestare la loro gioia, le anime ruotano in cerchi che girano a velocità differente, come negli orologi meccanici che all'epoca di Dante erano ai loro albori. È da notare come il movimento comunicato dagli ingranaggi sia vocalmente reso in questi versi con l'uso di una "rima franta" o "tmesi", ossia con la spezzatura della parola "differente-mente" in due versi successivi. Dalle anime che formano la corona più preziosa esce la luce più brillante, che ruota intorno a Beatrice con un canto così bello che il poeta non sa ricordarlo; poi le si ferma davanti, e si rivolge a lei. È San Pietro, chiamato da Beatrice "colui a cui Nostro Signore lasciò le chiavi" del Paradiso, luogo di gioia e di meraviglia, ed è da lei invitato ad interrogare Dante sulla fede, per la quale, secondo il Vangelo di Matteo (XIV, 29), egli camminò sulle acque insieme a Cristo, anche se proprio in quell'occasione Gesù lo riprende per la sua "poca fede" subito dopo, quando, spaventato, inizia a sprofondare. Pietro vede già, nella verità di Dio che sempre gli sta davanti, che la fede di Dante è buona, e infatti lo chiama subito "buon Cristiano", ma è bene che Dante esprima a parole i suoi pensieri. Così il poeta si prepara come un laureando all'esame del maestro, che, secondo la tradizione della scolastica, propone una questione di cui poi il candidato deve fornire le prove, e che poi sarà conclusa dal maestro. La prima domanda riguarda la definizione della fede. Dante prima di parlare aspetta un cenno d'assenso di Beatrice, poi premette un'invocazione alla grazia divina che gli consente di parlare con il primo dei soldati di Cristo ("primipìlo" era un centurione romano), poi risponde, citando espressamente San Paolo (che predicò a Roma insieme a San Pietro), che l'essenza della fede sta nell'essere "sostanza delle cose sperate" e "argomento delle cose che non si possono vedere". Il termine "sostanza" nella filosofi scolastica va inteso come il "fondamento sostanziale" di qualcosa, mentre l'"argomento" è la premessa concettuale di una deduzione. La fede, secondo Dante (e secondo San Tommaso che ha commentato la definizione di San Paolo), è la base della speranza di salvezza, di sopravvivenza alla morte, e la premessa per la comprensione della verità che altrimenti resta inconoscibile. Dante approfondisce la questione su richiesta di San Pietro: le cose che in cielo si possono vedere, nella vita terrena sono nascoste, ed è necessario credere per nutrire la speranza, e per questo la fede è la "sostanza" della speranza. A partire da essa, è possibile arrivare alla comprensione della verità con un procedimento razionale, e per questo la fede è "argomento" della conoscenza. Commenta San Pietro: "Se tutte le dottrine fossero così ben comprese, sulla terra non ci sarebbe spazio per tanti sofismi". Poi chiede a Dante se egli abbia davvero questa fede. Alla sua risposta affermativa, incalza, chiedendo da cosa derivi la sua certezza, e Dante si appella all'ispirazione dello Spirito Santo che pervade il Vecchio e il Nuovo Testamento. San Pietro chiede cosa testimoni la loro natura divina, e Dante cita i miracoli che vi sono narrati, che non possono essere opere naturali. Ma San Pietro gli fa notare che la loro verità è testimoniata solo dalla Bibbia stessa, la cui verità è quella che ora gli è stato chiesto di dimostrare. Allora Dante ricorre a un altro miracolo, che giudica ancora più grande, ossia che tutto il mondo si sia converito al cristianesimo, a partire dalla umile predicazione che iniziò con San Pietro e tutti gli altri Apostoli. A questo punto, la soddisfazione di tutti i beati per la risposta si esprime con un coro di lode a Dio, e San Pietro si avvia alla conclusione dell'esame, dichiarando la sua approvazione e chiedendo a Dante di parlare della sua fede e della via che lo ha condotto ad essa. Dante nella risposta enfatizza la fede di San Pietro, che lo fece arrivare primo al sepolcro di Cristo, forzando un po' il Vangelo di San Giovanni (XX, 6) che si riferisce in realtà al suo ingresso nel sepolcro, non al suo arrivo, ma forse bisogna interpretare simbolicamente anche questo passo, in quanto San Pietro fu il primo che rispose alla domanda di Gesù, riconoscendolo come "il Cristo, il Figlio di Dio vivente" (Matteo, XVI, 16; Marco, VIII, 29; Luca, IX, 20). Dante proclama la sua fede, parafrasando il "Credo atanasiano": "Credo in un Dio unico ed eterno, che muove tutto senza essere mosso, con l'amore che dona e il desiderio che suscita; della sua verità non solo ho prove fisiche e metafisiche, ma anche quelle testimoniate nella Bibbia da Mosè, dai Profeti, nei Salmi, nei Vangeli e gli Atti degli Apostoli, che voi scriveste alimentati dallo Spirito Santo; credo nelle tre persone eterne che hanno essenza una e trina, tanto da ammettere l'uso di riferirsi a loro sia al plurale ("sono" ) che al singolare ("è"). L'insegnamento evangelico mi imprime nella mente la certezza di questa imperscrutabile condizione di Dio, e da questa favilla nasce la mia convinzione che poi diventa una fiamma, che infine fa risplendere la mia fede come una stella". Questa dichiarazione entusiasma San Pietro che come il signore che abbraccia il servo che gli ha portato una buona notizia, lo cinge tre volte con la sua luce, levando un canto di benedizione. |
08/04/2010 00:00:00 | Il XXIII canto del Paradiso inizia con l'immagine di Beatrice che guarda in alto come un uccellino in attesa del sorgere del sole, la cui luce gli permette di andare in cerca del cibo per nutrire i suoi piccoli. Ugualmente Dante fissa lei, desiderando che accada ciò che lei aspetta. In poco tempo, il cielo si fa sempre più luminoso. e Beatrice annuncia: "Ecco le schiere del trionfo di Cristo", con un viso che a Dante pare ardere di letizia. Come la luna piena (chiamata "Trivia" perché personificata da Diana o anche da Ecate, a cui erano consacrati i trivii e i crocicchi) risplende in mezzo alle stelle che riempiono tutti gli angoli del cielo, così appare la luce di Cristo che illumina le innumerevoli luci dei beati, brillando della sua luce come (secondo la cosmologia dell'epoca) le stelle riflettono la luce del sole. Dante non riesce a fissare la sua luce, tanto essa è intensa, e Beatrice spiega che nulla può resistere alla sua virtù, la cui potenza è tale che poté riaprire le strade tra il cielo e la terra, interrotte dopo il peccato originale. La mente di Dante, nutrita da quella contemplazione ("dape" sta per "vivande") si fa più grande, fino a traboccare da sé stessa (i mistici chiamavano questa condizione "excessus mentis"), così come il fulmine (secondo la scienza del tempo) si sprigiona dalla nuvola per l'eccessiva dilatazione. Beatrice lo invita ad aprire gli occhi e a guardare il suo sorriso: dopo questa visione mistica, egli infatti è diventato capace di sostenere di nuovo sua la bellezza, che dall'ingresso al cielo di Saturno era diventata eccessiva per i suoi sensi. Dante la ammira, ma l'emozione è indescrivibile, come un sogno che non si ricorda, e non basterebbero tutti i poeti del mondo, nutriti dal latte di Poliamnia, la musa della poesia lirica, e delle altre muse sue sorelle, per descrivere la millesima parte di quel sorriso. Allo stesso modo, in questa terza cantica, è opportuno che egli sorvoli sulla bellezza del Paradiso, tanto è difficile l'impresa che si è accollato, come un tratto di mare lungo e pericoloso ("pareggio") non è adatto a un navigante che voglia risparmiarsi le fatiche. Ma Beatrice lo invita a guardare di nuovo il bel giardino dei beati che fiorisce sotto la luce di Cristo, tra cui potrà riconoscere "la rosa in cui il verbo divino si fece carne", cioé la Madonna, e tutti i gigli odorosi, cioé gli apostoli, da cui ebbe origine la Chiesa. Dante guarda, e vede come un prato illuminato dal sole nascosto tra le nubi, e capisce che Cristo si è innalzato verso l'Empireo, per permettergli di vedere meglio lo spettacolo dei beati e di Maria, che tra loro è la più sfolgorante. Dante si emoziona, rivolgendo tutta la sua attenzione a lei, che lassù supera tutti i beati come qui sulla terra superò tutti i mortali. Dal cielo appare l'arcangelo Gabriele, sotto forma di fiaccola circolare che cinge la testa di Maria come una corona, cantando un inno al cui confronto la melodia più dolce sembrerebbe un rumore di tuono, e la accompagna nella sua ascesa verso l'Empireo, che il suo ingresso renderà più divino. Tutti i beati si uniscono al coro per Maria, mentre lei e l'arcangelo ascendono verso la sfera successiva, il primo mobile, "lo real manto di tutti i volumi", che però è ancora così lontano che Dante non può distinguere la sua calotta interna. I beati dirigono la cima delle loro fiamme verso Maria che sale, come il bambino che tende le braccia alla mamma dopo aver preso il latte, e cantano "Regina Caeli", il coro tradizionale del periodo pasquale. Quanta abbondanza di beatitudine è contenuta in quelle arche (le anime dei beati), che qui sulla terra furono così buone seminatrici! ("bobolce", viene dalla stessa radice latina di "bifolco"). Adesso esse possono godere di quel tesoro che guadagnarono soffrendo durante l'esilio di Babilonia (metafora per la vita terrena ripresa dalla Bibbia, che racconta come nel 600 a.C. ebbe inizio il periodo denominato "cattività babilonese", sotto il re Nabuccodonosor II), quando disprezzarono le ricchezze terrene. E tra le schiere dei beati del Vecchio e del Nuovo testamento, risalta colui che tiene le chiavi della gloria della Chiesa: San Pietro. |
27/03/2010 00:00:00 | Stupito dal grido che le anime hanno levato alla fine del canto precedente, all'inizio di questo XXII canto del Paradiso Dante si volge verso Beatrice, come il bambino spaventato si rifugia dalla madre, e lei lo rassicura: "Non ti ricordi di essere in Cielo, dove tutto si fa per intensità d'amore? Pensa a quanto ti avrebbe sconvolto il canto di questi beati ed il mio sorriso, se questo grido ti ha turbato così tanto; dal quale, se tu lo avessi inteso, avresti appreso come la giustizia di Dio si compirà prima della tua morte. Il castigo di Dio viene al momento giusto, anche se sembra troppo presto o troppo tardi a coloro che la giustizia di Dio temono o attendono. Ma torna a rivolgere il tuo sguardo a questi spiriti illustri". E Dante vede cento sfere risplendenti che gli si fanno intorno, e non osa parlare. Ma la più lucente di quelle gemme si fa avanti e si rivolge a lui (è S. Benedetto da Norcia, nato nel 480): "Se tu vedessi il nostro ardore di carità per te, non ti faresti scrupolo di parlare; ma per non farti attendere troppo, io risponderò al tuo pensiero. Il monte sulle cui pendici si trova Cassino, era frequentato da genti pagane ostili ai cristiani, quando iniziai a portarvi il nome di Colui che ci rivelò la verità, e su di me risplendette tanta grazia che allontanai gli abitanti di quella zona dai culti pagani. Questi beati che mi stanno accanto furono tutti uomini dediti alla contemplazione, come l'anacoreta Macario" (non sappiamo se sia S. Macario l'Egiziano del 300 o S. Macario l'Alessandrino del 390, e forse Dante li confondeva) "e Romualdo" (S. Romulado degli Onesti che nel 1018 fondò l'eremo di Camaldoli) "e tanti frati che furono fedeli alla mia regola". Dante prende fiducia e chiede di poter vedere la sua immagine, che come per tutti i beati, è nascosta dalla sua luce. Benedetto gli spiega che il suo desiderio potrà appagarsi nell'ultima sfera celeste, cioè nell'Empireo, dove tutti i beati sono riuniti (ricordiamo che essi appaiono a Dante nei diversi cieli per incontrarli in modo graduale, secondo il loro grado di beatitudine, ma che effettivamente essi dimorano tutti nell'Empireo, vicino a Dio), e dove conduce la gradinata che sale a perdita d'occhio. Questa è la scala percorsa dagli angeli che apparve in sogno al patriarca Giacobbe (Genesi XXVIII, 12). Benedetto biasima la condizione attuale della Chiesa: "Ormai nessuno si affatica più per salirla, ed anche la mia regola serve solo a imbrattare le carte su cui è trascritta; le mura del monastero sono divenute spelonche, e le tonache dei frati, sacchi di farina guasta. Ma la cosa che a Dio spiace più dell'usura, è l'avidità dei monaci, che dovrebbero destinare le ricchezze della Chiesa ai poveri, non ai parenti o alle concubine. Ma la cane dei mortali è così debole, che anche le migliori intenzioni non riescono a durare abbastanza per generare i loro frutti". Dal nascere della quercia alla fruttificazione passano circa venti anni, che qui però sono intesi come tempo breve; forse il senso è che nessuno riesce a perseverare nelle buone intenzioni più di una ventina d'anni, che comunque, nella vita di un uomo, non sono generalmente sufficienti per compiere virtuosamente un'intera vita. Contina Benedetto: "San Pietro iniziò a fare proseliti senza oro e argento, io con la preghiera e il digiuno, e San Francesco con la sua umiltà. Ma dopo il loro buon inizio, puoi vedere le cattive condizioni delle comunità che ne sono derivate, e certamente il castigo di Dio non sembrerà una cosa così sorprendente quanto fu invece lo scorrere all'indietro delle acque del Giordano", miracolo che avvenne per far passare Giosuè e il popolo ebraico nella Terra promessa (Giosué, III, 16), "o delle acque del Mar Rosso", che si aprirono per far passare Mosé (Esodo, XIV, 21). Detto questo, S. Benedetto si riunisce alle altre anime, che si stringono e formano come un turbine, che sale roteando compatto su per la gradinata; Beatrice spinge Dante a salire dietro a loro, e la loro ascesa è più veloce di quanto si allontana un dito inavvertitamente scottato dal fuoco. Il cielo seguente è l'ottavo, quello delle stelle fisse, e Dante vi entra proprio in corrispondenza del segno che segue il Toro, ossia i Gemelli, che sono il suo segno natale, e a cui, secono la tradizione, è associata la propensione allo studio e alle arti, e dunque alla gloria. A loro si raccomanda il poeta per trovare l'ispirazione per completare il suo racconto del Paradiso, ora che entra nella parte più impegnativa. Prima di continuare, Beatrice invita Dante a guardare verso il basso e a considerare tutta la strada percorsa fino a quel punto. Dante vede la Terra così piccola, che comprende quanto sia virtuosa l'opinione di stimare la vita terrena di poco conto, al paragone di quella celeste. Poi vede la Luna (rappresentata da Diana, figlia di Latona), senza le zone chiare e scure che lo avevano confuso (e che Beatrice gli ha spiegato nel II canto del Paradiso), poi il Sole, che secondo Ovidio era figlio di Iperione, e vicino a lui Mercurio (figlio di Maia) e Venere (figlia di Dione), poi Giove, compreso tra il padre (Saturno) e il figlio (Marte), e gli appare chiaro anche il complesso movimento degli epicicli che gli attribuivano gli astronomi, suggerendo quasi che sia dovuto alla sua mediazione tra gli influssi dei due pianeti/parenti; e vede quanto i sette pianeti siano grandi e veloci, e quanto siano distanti le loro orbite. Dall'alto della costellazione eterna dei Gemelli, la Terra gli appare come una piccola aia su cui gli uomini si combattono ferocemente, che egli può coprire tutta, dai monti a i mari, con un solo sguardo. Infine rivolge nuovamente gli occhi agli occhi belli di Beatrice. |
25/02/2010 00:00:00 | All'inizio del XXI canto del Paradiso Dante guarda verso Beatrice, e vede che non sorride più, ma lei subito gli spiega che essendo loro saliti al settimo cielo, quello di Saturno, la sua bellezza si è accresciuta al punto che il suo sorridere l'avrebbe incenerito, come Sèmele, la figlia di Cadmo, re di Tebe, che fu amata da Giove e partorì Bacco, che fu indotta dalla gelosa Giunone a chiedere a Giove di apparirle in tutta la sua divina potenza, ma quando egli accettò di farlo, lei morì fulminata dall'eccessivo splendore. Poi lo invita a guardarsi intorno, e Dante le obbedisce con lo stesso piacere che prova nel guardarla. Nel corpo trasparente di Saturno, che secondo la mitologia regnò nell'età dell'oro, nella quale gli uomini non erano malvagi, Dante vede una immensa gradinata dorata, di cui non distingue la fine. Su e giù per la scala vede muoversi tante anime quante sono le stelle in cielo, in modo simile alle "pole", cioè ai corvi grigi, che al mattino volano chi lontano, chi avanti e indietro, chi roteando intorno al nido. Una di loro si avvicina a Dante, che però esita a parlare, aspettando un cenno d'assenso da Beatrice. Lei se ne accorge e lo invita a parlare, e forte dell'autorizzazione ricevuta, Dante si rivolge all'anima e le chiede perché si sia avvicinata più delle altre, e perché tutte le anime stiano in silenzio, senza innalzare i canti che ha sentito negli altri cieli. Il beato dice che esse tacciono per lo stesso motivo per cui Beatrice non sorride: i sensi del corpo mortale di Dante non potrebbero sopportare l'eccessiva bellezza dei loro cori. Poi spiega di essersi avvicinato per fargli festa e potergli parlare, ma tutte le anime fervono dello stesso amore per lui, come appare dalla loro luminosità, ma che egli solo è stato destinato da Dio a farsi più avanti degli altri. Dante risponde di capire come la libera volontà dei beati coincida con la stessa volontà di Dio senza alcuna imposizione, ma non riesce a capire i motivi profondi della scelta di Dio. L'anima gira sul proprio asse orizzontale come la mola di un mulino, e risponde che, sebbene la luce divina penetri in lei permettendole di contemplare Dio, neanche il serafino più vicino a Dio può penetrare fino in fondo alla sua volontà. Per questo, una volta tornato nel mondo mortale, è bene che Dante ricordi agli uomini di non pretendere di poter comprendere la volontà di Dio, essendo impossibile che le menti mortali, offuscate rispetto a quelle dei beati, vedano ciò che è invisibile anche dopo l'assunzione nei cieli. Dante allora chiede all'anima chi fosse quando era in vita, e questa risponde di aver iniziato una vita di eremitaggio presso il monastero di Fonte Avellana, sotto il monte Catria, una cima isolata degli Appennini umbro-marchigiani, accontendandosi di cibi magri conditi con olio, e sopportando senza disagi le intemperie delle stagioni. Ai suoi tempi da quell'eremo vennero molte anime sante, mentre ora è sterile in confronto. Egli fu Pier Damiani, chiamato Pietro Peccatore quando visse nell'abbazia di Santa Maria di Porto Fuori sull'Adriatico. Anche se "Petrus peccator monacus" era la firma che Pier Damiani usò in alcune lettere, Dante lo confonde con un altro Pietro Peccatore che fu sepolto in quella abbazia. Prosegue il suo racconto: quasi al termine della sua vita fu nominato cardinale, titolo che oggi si assegna a chi non lo merita. Anche qui, Dante non sa che egli fu fatto cardinale quindici anni prima di morire, e che cinque anni prima di morire egli rinunciò alla carica per tornare alla vita monastica, altrimenti avrebbe senz'altro citato questo fatto nella sua invettiva finale. Pietro e Paolo (il "vas electionis" dello Spirito Santo) erano magri e scalzi, ed elemosinavano il cibo, ora invece gli uomini di chiesa devono essere sorretti a destra e a sinistra per la loro mole, ed essere alzati da dietro per montare a cavallo, con mantelli così sfarzosi e grandi "che due bestie van sott'una pelle". Oh pazienza di Dio che sopporti così tanto! A questa esclamazione, tutte le anime si avvicinano e prendono a girare, fermandosi intorno a Pier Damiani e levando un grido così alto che Dante non riesce a comprenderlo, frastornato dal fragore del rimbombo. |
05/02/2010 00:00:00 | Il XX canto del Paradiso inizia con il paragone delle luci dei beati che compongono l'immagine dell'aquila con le stelle che, in base alle credenze del suo tempo, Dante riteneva brillare per la luce riflessa del sole, come oggi sappiamo accade solo per i pianeti. Terminato il discorso del canto precedente, le anime sono viste non più come un'unica immagine di aquila, ma come singole luci che intonano un canto in cui manifestano tutto il loro ardore verso Dio. Le anime sono chiamate "flailli", parola che non ha altre occorrenze in tutta la letteratura, ma che si ritiene significare "flauti" (altri propongono "fiaccole"). Quando il canto finisce, Dante sente un suono simile ad un fiume che scende rigoglioso, dando prova della abbondanza della propria fonte. E come sil suono di una cetra si forma dove le corde toccano il lanico, o nei fori della zampogna, così quel suono indistinto composto dalle tante voci delle anime prende forma nel collo dell'immagine dell'aquila, che torna a rivolgersi a Dante parlando in prima persona singolare. Essa invita Dante a guardare le anime che compongono il suo unico occhio, essendo la testa dell'aquila rivolta di profilo. Questo è composto da un'anima che fa da pupilla e cinque anime che formano l'arco superiore dell'occhio. La pupilla è Davide, il re di Israele che è ritenuto essere l'autore dei Salmi e trasportò l'arca dell'alleanza da Gabaon a Geth e poi a Gerusalemme (dove entrò ballando di giubilo in lode al Signore come già ricordato in un altorilievo nel X canto del Purgatorio), ed ora sa quanto fu meritevole la sua opera, con il premio che ha ricevuto. La prima anima che forma l'arcata del ciglio, quella più vicona al becco, è Traiano, che nello stesso altrorilievo del X canto del Purgatorio rende giustizia ad una povera vedova che aveva perso il figlio, ed ora che ha fatto esperienza del limbo, sa quanto si possa perdere se non si segue Cristo. Accanto a lui c'è Ezechia, re di Giuda, che con il suo pentimento ottenne di rinviare la propria morte di quindici anni, in cui poté meritare la propria salvezza, e che ora sa come ogni preghiera sia già prevista nell'onniscienza di Dio, che dunque non muta il suo volere quando le accoglie. Lo spirito seguente è l'imperatore Costantino, che trasferì la sede dell'impero a Bisanzio, con le sue leggi e con l'insegna dell'aquila che ora è rappresentata dai beati. Egli è responsabile della donazione di Costantino, che portò alla corruzione della Chiesa, ma poiché il suo atto fu compiuto con buona intenzione, non gli è attribuito come colpa. Accanto gli è Guglielmo II d'Altavilla, re di Sicilia e di Puglia, che lo rimpiangono, adesso che piangono sotto Carlo II d'Angiò re di Napoli e Federico II d'Aragona, re di Sicilia. Adesso sa quanto il cielo ama i re giusti, come infatti il suo fulgore manifesta. L'ultima luce è Rifèo, che nell'Eneide di Virgilio è brevemente descritto come "il più giusto e il più rispettoso dell'equità"... come possa essere in Paradiso, sarà spiegato tra poco: certamente egli conosce la grazia divina più di ogni altro, per quanto neanche lui possa scorgerne il fondo. L'aquila tace come un'allodola che dopo aver volato cantando, si posa come saziata dalla dolcezza delle sue ultime note. Anche se i beati possono vedere i pensieri di Dante, egli non frena la sua sorpresa di aver visto i due pagani Traiano e Rifèo, e chiede: "Che cose son queste?". E l'aquila, ravvivata la sua luce, gli spiega che la volontà divina si lascia vincere volentieri dal caldo amore e dalla speranza degli uomini, e così quelle due anime poterono morire come cristiani effettivi: Traiano, già nel limbo, fu richiamato in vita dalle preghiere di San Gregorio Magno, papa dal 590 al 604, ed ebbe così la possibilità di convertirsi ed accedere al Paradiso. Rifèo fu così dedito all'esercizio della giustizia, che Dio gli concesse la grazia di prevedere la futura redenzione, e più di mille anni prima di Cristo egli fu battezzato dalle tre virtù teologali Fede, Speranza e Carità, che Dante aveva visto danzare vicino alla ruota destra del carro che gli apparve nel Paradiso terrestre, come ci ha raccontato nel XXIX canto del Purgatorio. L'aquila chiude il suo discorso: "O predestinazione, quanto sei incomprensibile a chi non ha la visione di Dio! E voi mortali, non giudicate superficialmente, dal momento che neanche noi beati, malgrado la nostra visione di Dio, possiamo sapere chi sarà salvato! Ma questa mancanza ci è dolce, perché si adegua al volere divino" (questa cautela potrebbe corroborare la mia tesi fantateologica esposta alla fine del canto precedente, sulla possibile "prova d'appello" per i destinati al limbo, che allora forse neanche i beati possono conoscere...). Come un buon suonatore di cetra accompagna un buon cantore, durante il discorso dell'aquila, le luci delle due anime sante si muovevano in sincronia come gli occhi in un battito di ciglia. |
22/01/2010 00:00:00 | Nel XIX canto del Paradiso, davanti a Dante si presenta l'aquila che rappresenta la giustizia, composta come un mosaico dalle anime che fruiscono della beatitudine nel cielo di Giove, ognuna delle quali pare un piccolo rubino che riflette la luce del sole. Dante deve ora riferirci una visione mai concepita prima: non solo la forma ed il movimento, ma anche la voce dell'aquila composta dai beati è una sola, e parla usando il singolare, rappresentando la personificazione della giustizia stessa. Dice: "Sono qui a godere della gloria che supera ogni desiderio, perché in vita fui giusto e pio; la memoria che ho lasciato sulla terra è tale che anche i malvagi la lodano, anche se sono incapaci di seguire il mio esempio". La voce, dice Dante, era una, come uno è il calore che emana da molte braci. Poi prende la parola: "O fiori di letizia eterna, che vi manifestate con un unico profumo, risolvetemi il dubbio che sulla Terra ho cercato inutilmente di comprendere; so che anche se gli angeli dell'ordine dei Troni che fanno da specchio alla giudizia divina risiedono in un altro cielo (quello di Saturno), anche voi, che siete beati per aver amministrato bene la giustizia sulla terra, la comprendete senza alcun ostacolo. Sapete con quanta attenzione vi ascolto, e sapete quale è il dubbio che mi assilla". Come gli altri beati, anche le anime di questo cielo possono leggere in Dio qual è il pensiero di Dante. L'immagine dell'aquila si pavoneggia allora come un falcone da caccia quando gli sia stato tolto il cappuccio, esprimendo così la letizia dei beati, e intona un canto la cui bellezza può essere compresa solo da chi ha meritato il Paradiso. Poi risponde: "Colui che tracciò con il compasso i confini dell'universo, in cui poi mise tante cose occulte e tante cose manifeste, non poté riversare nella sua creazione tanto valore, che non fosse infinitamente superato dal suo concetto divino. Ne è la prova che Lucifero, che riunì in sé quanto di più perfetto potesse esserci in una creatura, per la sua superbia cadde ancora imperfetto, in quanto non fu capace di attendere la grazia divina. La vostra ragione è come un solo raggio della luce di Dio, e non può discernere molto oltre da quanto gli è vicino. La vostra vista si inoltra come nell'acqua del mare: dove è bassa, riconoscete il fondo, ma in mare aperto non potete vederlo, anche se sapete che c'è. L'unica verità viene da Dio, ciò che deriva da altro è veleno per i vostri sensi. Adesso ti è stato rivelato il nascondiglio della verità per l'assillante questione che ti eri posto: un uomo che nasce sulle rive dell'Indo, dove nessuno conosce Cristo e ne trasmette l'insegnamento, anche se vive con buona volontà e senza peccato, se muore non battezzato, è comunque condannato. Che giustizia è questa? Qual è la sua colpa?... Ma chi sei tu, piuttosto, che vuoi salire in cattedra, e giudicare cose lontane mille miglia, vedendo solo le cose a una spanna da te. Certamente, se voi non aveste le Sacre Scritture come guida, chi sottilizza sulla giustizia avrebbe straordinarie ragioni per dubitare. O anime terrene! o menti ottuse! La volontà divina è buona per sé stessa e non è mai mutata. È giusto soltanto ciò che a lei si conforma: nessun bene creato la attrae a sé, ma è da essa che deriva ogni bene". Questa è la posizione di Dante e della filosofia del suo tempo, all'antico problema già posto da Platone: Dio vuole il bene perché è bene, o il bene è tale perché è ciò che vuole Dio? Finito di parlare, l'immagine dell'aquila si anima di nuovo in un volo a circolo sopra Dante, che la rimira con gratitudine come un cicognino appena nutrito guarda la madre che volteggia sul nido. E intanto, canta una altro inno: "Per te i miei canti sono incomprensibili, come è incomprensibile la giustizia divina per voi mortali". Poi l'immagine si ricompone nella posa del simbolo dell'aquila romana, e ricomincia: "Qui non è mai salito chi non ha creduto in Cristo, né prima né dopo il suo martirio sulla croce; ma anche se molti gridano il suo nome, non tutti entreranno nel regno dei cieli, e il giorno del giudizio potranno trovarsi più lontani di chi non l'ha conosciuto. Quando le anime dannate saranno divise da quelle beate, chi è cristiano solo esteriormente potrebbe essere giudicato severamente da chi è nato in Etiopia, e dunque privo della possibilità di essere cristiano. Anche i persiani senza la vera fede, cosa potranno dire ai vostri re corrotti, quando sarà aperto il libro della giustizia divina, dove tutti potranno leggere le colpe e i meriti di ogni uomo?". Qui inizia la tirata conclusiva del canto, in cui sono elencati quasi tutti i sovrani europei, anche se alcuni di loro, in realtà, furono migliori di come li dipinge Dante, che probabilmente dei più lontani aveva notizie un po' vaghe. La penna di Dio segnerà tra le colpe di Alberto d'Austria l'invasione ingiustificata della Boemia; Filippo il Bello, che morì cadendo da cavallo per aver travolto un cinghiale nella caccia, danneggierà la Francia facendo coniare monete con un valore minore di quello dichiarato; il re di Scozia e quello d'Inghilterra saranno dannati per la superbia che li rende insofferenti dei confini che spettano loro; a tutti sarà manifesta la lussuria e l'oziosità dei re di Spagna e di Boemia; Carlo II d'Angiò, detto lo zoppo (ciotto) di Gerusalemme, vedrà segnata una "I" (che vale uno) per i suoi meriti, e una "M" (che vale mille) per le sue colpe; si vedrà l'avarizia e la viltà del re dell'isola del foco (l'Etna), in cui morì Anchise ormai vecchissimo, cioè di Federico II re di Sicilia, per elencare i cui peccati sarà necessario usare delle abbreviazioni. E saranno rese note anche le azioni disonorevoli di suo zio da parte di padre (detto "barba" nei dialetti settentrionali), re di Maiorca, e di suo fratello, re d'Aragona, entrambi con il nome di Giacomo II. E ancora, si conosceranno le opere del re del Portogallo, del re della Norvegia, e del re di Serbia (la Rascia si trova tra la Serbia e il Kosovo), che fece coniare monete simili a quelle di Venezia con intento fraudolento. Invocazione finale: "O beata Ungheria, se riuscirai a porre fine al malgoverno!" e Dante scrittore sa già che Caroberto, il figlio di Carlo Martello, porrà fine alle lotte e la governerà con valore; "O beata Navarra, se tu potessi difenderti bene con i Pirenei che ti circondano!" ma in questo caso Dante sa che il buongoverno di cui ha goduto è destinato a finire con il suo prossimo passaggio sotto l'influenza francese, e quindi sotto Filippo il Bello, che Dante detestava. "E tutti devono interpretare come anticipo di questa disgrazia le sofferenze di Cipro (designata dalle sue due maggiori città) inflitte dal suo bestiale sovrano (Arrigo II di stirpe francese), che non si discosta dal comportamento di tutti gli altri sovrani bestiali". Malgrado la prolissità di questo commento, mi si permetta ancora una nota di fanta-teologia: devo ammettere che non sono soddisfatto dalla reticenza dei beati sul tema degli infedeli che, anche se di buona volontà e senza colpa, sarebbero condannati solo per non aver potuto credere in Cristo; anche se poi, parlando del giorno del giudizio, le anime dicono che loro potranno essere più vicini a Dio che tanti falsi cristiani, resta una magra consolazione se comunque fossero condannati. Così ho immaginato una soluzione che potrebbe salvare loro come le altre anime relegate nel Limbo descritto nel IV canto dell'Inferno: forse a tutti loro è riservata ancora una prova, che devono compiere prima del fatidico giorno del giudizio. Pur pensando di essere ormai dannati, alcuni di loro potrebbero ugualmente nutrire una fiducia incondizionata nella bontà di Cristo e nella misericordia di Dio, tale da costituire un vero e proprio "atto di fede" postumo, che potrebbe essere valido proprio perché compiuto da anime ufficialmente prive di ogni speranza. Sembra troppo cavilloso? Eppure, così sarebbe giustificata in modo ideale anche la necessità della "segretezza" e la dichiarazione della "incomprensibilità" della logica della legge divina. Proprio questa segretezza permette di potere accettare come valida la "fede postuma" degli infedeli. I beati del Paradiso lo sanno, ma questa verità non può arrivare al Limbo, pena l'annullamento della "prova di recupero". Probabilmente neanche Dante ci ha pensato, ma come dice il commento di Sermonti a proposito dell'immagine del compasso in questo stesso canto, nella poesia vi può essere più verità di quanta intendesse versarne chi l'ha scritta; e quando le anime che compongono l'aquila cantano che egli non può comprendere il loro canto, così come i mortali non possono comprendere il giudizio divino, proprio in quel momento Dante lo sta comprendendo benissimo. Il fondo del mare può essere misurato anche quando non si può vedere. |
11/01/2010 00:00:00 | Continua la nostra ascesa tra i cieli del Paradiso con Dante Alighieri. Il XVIII canto del Paradiso inizia con una pausa in cui Cacciaguida e Dante ripensano alle importanti cose appena dette nel canto precedente. Beatrice si accorge della preoccupazione di Dante e lo conforta, come già faceva Virgilio: "Pensa che io sono vicina a Dio, che allevia ogni ingiustizia". Dante la guarda e la vede così bella che rinuncia a descriverlo, tanto risplendeva nel suo viso il riflesso dell'amore di Dio. Lei gli sorride e lo invita a guardarsi intorno: "...che non pur ne' miei occhi è paradiso". Dante si volge allora a Cacciaguida, e riconosce la sua volontà di parlargli ancora. Ed infatti, prima di accommiatarsi da lui, Cacciaguida vuole indicare a Dante alcune anime del cielo di Marte che sarebbero degne di essere ricordate in poemi eroici (quasi presagisse la scrittura dell'"Orlando furioso" e della "Gerusalemme liberata"...). Le anime si muovono man mano che Cacciaguida le nomina. Il primo è Giosuè, che dopo la morte di Mosè coindusse gli ebrei alla terra promessa; poi Giuda Maccabeo, la cui anima rotea come una trottola, che liberò gli Ebrei dalla tirannide del re di Siria; poi Carlo Magno e Orlando, che difesero l'occidente cristiano dalle incursioni degli arabi; poi Guglielmo d'Orange che combatté insieme a Carlo Magno, e Renoardo, che pare sia solo un personaggio letterario che in alcune "chanson de geste" (che furono le fonti di Dante) è un fedele compagno di Guglielmo, rappresentato come un forzuto che combatte con la clava. Infine altri due personaggi storici, Goffredo di Buglione che capitanò la prima crociata e riconquistò Gerusalemme, di cui però non volle essere re, ma preferì essere titolato come "difensore del santo sepolcro", e Roberto Guiscardo, che nel 1059 fu nominato dal papa Niccolò II duca di Puglia, Calabria e Sicilia, ancora sotto la dominazione dei bizantini e degli arabi, ma che poi egli riuscì a riconquistare. Poi Cacciaguida si ricongiunge alle altre anime, riprendendo il loro canto corale, in cui si dimostra essere uno dei migliori. Di nuovo, Dante si volge verso Beatrice, ed i suoi occhi gli appaiono così puri e gioiosi da vincere anche il suo aspetto precedente. Come l'uomo sente un maggior piacere mentre di giorno in giorno si comporta onestamente, sentendo in lui crescere la virtù, così dall'accresciuta bellezza di Beatrice Dante si accorge di essere istantaneamente salito al cielo superiore, quello di Giove, che ha una circonferenza maggiore del precedente. La luce intorno, da rossa che era nel cielo di Marte, si è fatta bianca come la pelle di una donna che recuperi il suo candore naturale dopo essere arrossita dal pudore. Ed ecco che le anime luminose di Giove volano intorno a lui componendo delle lettere e fermandosi tra una e l'altra. Dante inizia a leggere: "D", "I", "L"... Chiede alla Musa di aiutarlo a riprodurre ciò che vide (la musa è indeterminata, ma è chiamata "Pegasea" perché il mito vuole che il cavallo alato Pegaso, dando un calcio alla cima del Parnaso Elicona, dove risiedevano le muse, fece scaturire la fonte Ippocrene, simbolo dell'ispirazione poetica). Riprende con coincisione: vide trentacinque lettere, divise in due parti, quella iniziale era "DILIGITE IUSTITIAM", e quella finale era "QUI IUDICATIS TERRAM". Si tratta del primo versetto del biblico Libro della Sapienza, tradizionalmente attribuito a Salomone: "Amate la giustizia, voi che governate la terra"; e le anime di questo cielo sono appunto quelle di coloro che furono giusti in vita. La figura della "M" finale, che pareva d'oro sullo sfondo argenteo di Giove, deve essere immaginata in alfabeto gotico somigliante alle tre punte di un forcone rivolte verso il basso. Essa non svanisce, ma si completa con altre anime che formano una specie di giglio sulla sua sommità, che poi si precisano disegnando la testa ed il collo di un'aquila, mentre anche le altre anime che formano il corpo si dispongono in modo adeguato alla nuova rappresentazione. Dante considera che, poiché è Dio stesso a guidare questo disegno celeste, più che rappresentare un'aquila, esso rappresenta direttamente quell'archetipo universale da cui le aquile stesse prendono la loro "virtù formativa", di cui abbiamo già appreso nel XXV canto del Purgatorio e nel VII canto del Paradiso. Ossia, quest'aquila non è "meno aquila" delle aquile vere! L'aquila rappresenta inoltre anche il potere imperiale, che dovrebbe amministrare la giustizia sulla terra. Dante allora prega Dio che veda il male, il "fumo" che impedisce il benefico influsso di Giove di raggiungere la terra, e intervenga per scacciare una seconda volta i mercanti dal tempio, e chiede alle anime del cielo di Giove di pregare per chi viene sviato dal cattivo esempio dei pontefici corrotti. L'accusa di Dante si puntualizza probabilmente verso il papa Giovanni XXII, in carica nel momento in cui fu scritto il canto: prima si faceva la guerra con le spade, ora si fa togliendo il pane (dell'Eucarestia) che Dio non toglie a nessuno (ossia, infliggendo scomuniche arbitrarie). Ma tu (Giovanni XXII) che scrivi solo per cancellare (cioè per revocare le scomuniche in cambio di benefici materiali, anche se ciò non è storicamente esatto, oppure per revocare benefici ecclesiastici a vescovi e abati per avocarli alla Santa Sede), ricordati che san Pietro e san Paolo, che morirono per la stessa Chiesa che tu guasti, in realtà sono ancora vivi in Paradiso... anche se puoi tu ben dire "io desidero solo colui che visse nel deserto, e che subì il martirio per il ballo (di Salomè, ossia san Giovanni Battista, la cui immagine era riprodotta sul fiorino), e non conosco il pescatore (san Pietro) e né Polo (forma volgare e dispregiativa di Paolo)". E forse in questa storpiatura si può riconoscere la pronuncia francese di "Paul" di Giovanni XXII, al secolo Jacues Duèze, nativo di Cahors, nel sud della Francia. |
31/12/2009 00:00:00 | Buon anno nuovo a tutti! Non so voi, ma io mi accontenterei che vada un po' meglio di quello passato... Il XVII canto del Paradiso è il canto centrale di tutta la cantica, e dunque non è un caso che Dante disponga proprio qui la dichiarazione esplicita della sua missione di poeta, che consiste nella critica alla società del suo tempo, denunciando senza reticenze ogni corruzione, e proprio per questo egli ha avuto l'opportunità di incontrare tante anime famose nel suo viaggio ultraterreno. In apertura del canto, Dante si descrive con lo stesso stato d'animo con cui Fetonte, a cui era stato insinuato che non fosse veramente figlio di Apollo, si rivolse alla madre Climène per conoscere la verità (e per questo poi egli chiese ad Apollo di lasciargli guidare il carro del Sole, con cui però fu fulminato da Giove, per aver deviato dal retto cammino, e ciò induce ancora i padri a non cedere a tutte le richieste dei figli); Beatrice e Cacciaguida se ne rendono conto, e sanno già anche cosa egli vorrebbe chiedere, ma Beatrice lo invita a rendere esplicita la sua richiesta, perché egli si abitui a chiedere ciò di cui ha bisogno (consiglio che peraltro si rivelerà opportuno nel suo futuro esilio che gli sta per essere annunciato). Così Dante si rivolge a Cacciaguida (tornando al "tu", visto che il "voi" del precedente canto aveva sollevato qualche imbarazzo): "O mia cara radice ("piota" sta per "pianta del piede", e quindi per "radice"), tu che vedi in Dio le cose terrene con la stessa chiarezza con cui noi mortali vediamo che un triangolo non può avere due angoli ottusi, aiutami a comprendere le parole gravi sulla mia vita futura che mi sono state dette quando, insieme a Virgilio, sono venuto su per il Purgatorio e sono sceso per l'Inferno; per quanto mi senta forte contro le avversità, una saetta prevista colpisce con meno forza". Cacciaguida non risponde con espressioni oscure (ambage) tipiche degli oracoli che confondevano gli uomini prima della venuta di Cristo, ma con parole chiare e semplici ("latin", come altrove nella Commedia, non sta per "lingua latina", ma per "linguaggio facilmente comprensibile"): "Tutto ciò che accade nel vostro mondo è visibile eternamente in Dio, anche se non per questo ha caratteristica di necessità (ossia non pregiudica il libero arbitrio umano), come l'osservare una barca che scende da un fiume impetuoso non ne altera il tragitto. Così, vedo il tempo che ti si prepara come se ascoltassi una musica d'organo. Come Ippolito, figlio di Teseo, fu cacciato da Atene a causa delle false accuse che la matrigna Fedra gli rivolse, perché lui aveva respinto le sue illecite lusinghe, così sarà opportuno che tu parta da Firenze, come già si cerca di ottenere là dove Cristo viene mercanteggiato ogni giorno (nella Curia papale). Come al solito, la colpa sarà addebitata alla parte offesa, ma la punizione di Dio testimonierà la verità. Dovrai lasciare le cose più care, e dovrai provare quanto è amaro il pane altrui, e come è faticoso e difficile lo scendere e il salire per le scale altrui (per chiedere ospitalità). Ma la cosa che più ti dispiacerà, sarà vedere la malvagità e la stoltezza degli altri Guelfi Bianchi esiliati insieme a te, così che anche loro ti si metteranno contro; ma saranno loro a doverne pagare le conseguenze con il sangue (probabile riferimento al tentativo detto "della Lastra" di rientrare a Firenze nel 1304, a cui Dante non partecipò); per te sarà motivo di onore l'aver fatto "parte per te stesso" (forse proprio a partire dal suo dissenso a quel tentativo). Il tuo primo ospite sarà un grande signore Lombardo che ha per stemma una scala con l'aquila imperiale (Bartolomeo della Scala, signore di Verona, che pare aver modificato lo stemma, originariamente con la sola scala, dopo le sue nozze con Costanza, pronipote di Federico II). Egli sarà così benevolo, da prevenire le tue richieste prima che tu le formuli. Presso di lui vedrai un giovanetto che ha su di sé una così forte impronta di questo pianeta Marte, da fare cose destinate ad essere notate da tutti, anche se adesso ha solo nove anni (il fratello minore Cangrande della Scala, che successivamente ospiterà Dante in un suo secondo ritorno alla corte degli Scaligeri, con tale magnanimità che Dante gli ha dedicato la cantica del Paradiso). Prima che il papa Clemente V Guascone inganni l'imperatore Arrigo VII (nel 1312 favorì la sua discesa in Italia, poi invitò i Guelfi a combatterlo), il suo valore si inizierà a manifestare, nel non curarsi né delle ricchezze, né delle fatiche militari, e diventerà tale, che anche i suoi nemici non potranno negare la sua grandezza. Affidati a lui, che cambierà lo stato di poveri e ricchi" e Dante aggiunge che disse ancora su di lui cose incredibili persino a coloro le vedranno, ma che egli non può riferire (si rispecchiano qui le speranze che Dante confidava in Cangrande della Scala anche nel momento in cui scriveva questi versi, probabilmente nel 1318). Conclude Cacciaguida: "Queste sono le insidie che ti aspettano, ma non odiare i tuoi concittadini, che saranno puniti prima che finisca la tua vita (o la tua fama)". Come Dante si rende conto che egli ha finito di esporre la trama della sua vita futura, richiede ancora un consiglio come si desidera da una persona di cui si ha fiducia perché conosce bene le cose, vuole le cose giuste e ci vuole bene: "Vedo come il tempo stia per colpirmi, per cui dovrò essere previdente, per non perdere la disponibilità dei miei ospiti a causa dei versi che scriverò. Giù per l'Inferno, e poi su per il Purgatorio, dalla cui cima mi hanno sollevato gli occhi di Beatrice, e anche qui nei cieli del Paradiso, ho appreso cose che a molti non piacerà sentire ("agrume" stava allora per ortaggi come aglio e cipolla); ma se le taccio, temo che non meriterò di essere ricordato dai posteri". Cacciaguida si illumina come il sole riflesso in uno specchio d'oro, e poi risponde: "Solo chi ha la coscienza offuscata per non voler vedere le proprie colpe o dei propri congiunti sarà colpito dalle tue parole, ma tu non mentire, e manifesta ogni tua visione, lasciando che si lamenti chi deve dolersene; anche se la tua voce darà fastidio al primo assaggio, porterà un nutrimento vitale quando sarà digerita. Sarà come il vento, che sferza più forte le cime più alte, che è già cosa degna di onore; ed è proprio per questo che ti sono state mostrate tutte le anime famose che hai incontrato, perché l'animo di chi ascolta non pone fiducia agli esempi di sconosciuti, o ad argomenti che non siano evidenti". Con questo Dante risolve, per chi se la fosse posta, la questione del come mai abbia sempre avuto, per tutta la Commedia, l'opportunità di imbattersi in tutti quei personaggi ben conosciuti, in mezzo alla sterminata moltitudine che popola "il mondo dei più". |
21/12/2009 00:00:00 | Quando preparai la maturità, ricordo che il XVI canto del Paradiso non era tra quelli previsti. Tuttavia proprio in quell'occasione il mio interesse per la Commedia iniziava a diventare indipendente dai doveri scolastici, così gli diedi ugualmente una rapida lettura. Poi, all'interrogazione, il professore mi chiese proprio di Cacciaguida, e del perché dei tre canti a lui dedicati, solo due erano nel programma: e così ebbi modo di fare bella figura dicendo che avevo letto anche quello mancante e che contiene un elenco di nomi di antiche famiglie fiorentine, che per noi risultano poco significative, anche se all'epoca di Dante erano ancora vive nella memoria di tutti. L'esercizio che Dante affronta in questo canto è quello di fare poesia con l'equivalente di un elenco telefonico... Il canto si apre con il rammarico di Dante di essersi sentito orgoglioso nell'apprendere della sua nobile ascendenza, cosa che in Paradiso dovrebbe ritenersi una vanità superata. Per questo comprende come qui sulla terra la vanagloria sia ancor più difficile da dominare, e paragona la nobiltà come un mantello che si accorcia con il tempo, se non si provvede ad allungarlo aggiungendo nuovo panno, ossia esercitando la nobiltà d'animo che dovrebbe essere sempre accompagnata alla nobiltà ereditaria. Così inizia a rivolgersi a Cacciaguida usando il "voi" in segno di reverenza, cosa poco opportuna in Paradiso, per cui Beatrice interviene con una risatina di compatimento che ricorda a Dante la dama di Malehaut che, tossendo, palesò la sua presenza durante il primo colloquio compromettente tra Lancillotto e Ginevra. Dopo aver espresso a Cacciaguida la propria contentezza nell'apprendere quanto gli ha detto, non disgiunta però dalla sua capacità di contenerla con un contegno adeguato, gli chiede chi furono i suoi avi, quando egli nacque, quanti erano gli abitanti di Firenze a quell'epoca, e quali erano le famiglie più in vista. La luce di Cacciaguida si ravviva ed inizia la lunga risposta, "non con questa moderna favella", ossia parlando in un italiano più antico di quello in cui Dante ce lo ha trascritto. Per prima cosa specifica il suo anno di anscita: "Dal giorno in cui l'arcangelo Gabriele annunciò la concezione di Maria al giorno della mia nascita, questo pianeta Marte è transitato nella costellazione del Leone, da cui viene alimentato, cinquecentocinquanta più trenta volte"; a conti fatti, considerando che l'anno di Marte dura 687 giorni terrestri, l'anno di nascita risulta essere il 1091, che concorda con quanto dice Cacciaguida a proposito della sua partecipazione alla crociata del 1147 con Corrado III. Poi accenna brevemente ai suoi avi: "Essi nacquero, come me, all'inizio di Sesto di Porta San Pietro, l'ultimo attraversato dal vostro annuale palio di san Giovanni". Si tratta di via degli Speziali, una traversa di via dei Calzaiuoli, tra la piazza del Duomo e piazza della Signoria. Preferisce non aggiungere altro, forse per non alimentare la vanagloria che aveva preso Dante, ma si capisce che Dante stesso non aveva altre informazioni da mettergli in bocca. Prosegue Cacciaguida: "i cittadini adatti a portare le armi, tra il Ponte Vecchio (dove si trovava un'antica statua di Marte) e il battistero di San Giovanni (cioè al limite nord della prima cerchia di mura di Firenze), erano un quinto di coloro che sono vivi adesso". Le stime sul numero effettivo dei cittadini di Firenze nel 1100 e nel 1300 sono discordi, ma quelle più recenti li attestano in 20.000 e 100.000 rispettivamente; comunque il rapporto 1 a 5 è generalmente condiviso. Poi inizia la rassegna dei cittadini più illustri dell'epoca, costellata di allusioni che a volte non siamo in grado di decifrare, e soprattutto pervasa di disappunto per la crescita troppo rapida che ha causato il degrado di Firenze, temperato tuttavia da un senso di accettazione del disegno divino, per cui ogni cosa, compresa la gloria delle città e delle grandi famiglie, è destinata a perire: "La confusione delle persone è sempre un malanno per le città, come per l'uomo lo è il mangiare del cibo quando ancora non ha digerito il cibo precedente; un toro cieco capitola prima di un agnello cieco; e spesso taglia più e meglio una sola spada invece che cinque. Se vedi come anche le città possono essere abbandonate e scomparire, non ti sembrerà strano che anche intere famiglie possano avere termine. Tutte le cose muoiono come muore ogni uomo, ma per alcune non possiamo accorgercene, a causa della brevità della nostra vita. Come le maree causate dalla Luna coprono e scoprono le coste senza posa, così fa la fortuna con Firenze, e così non deve sembrarti strano che alcune di queste grandi famiglie siano sparite". Sarebbe troppo prolisso riportare un resoconto di tutti i nomi delle famiglie citate. Basterà riprendere la parte finale, che si riferisce all'evento che accese la miccia delle sanguinose lotte tra Guelfi e Ghibellini: Buondelmonte dei Buondelmonti, la cui famiglia era venuta in Firenze in seguito alla distruzione del loro castello di Montebuoni in val di Greve, ruppe il fidanzamento con una giovane della famiglia degli Amidei, per sposare la figlia di Gualdrada Donati. Per vendicare l'affronto, gli Amidei fecero uccidere Buondelmonte proprio davanti all'antica statua di Marte, dando inizio alla lunga faida tra Ghibellini (dalla parte degli Amidei) e Guelfi (dalla parte dei Buondelmoni e dei Donati). "O Buondelmonte" conclude Cacciaguida, "quanto sarebbe stato meglio che tu fossi affogato nell'Ema (il fiume che divide Firenze dalla val di Greve) la prima volta che lo hai attraversato! Ma era destino che Firenze sacrificasse una vittima alla statua di Marte, ponendo fine ai suoi anni di pace. Con queste famiglie io ho vissuto l'epoca gloriosa di Firenze, il cui stemma non fu mai rovesciato nella polvere dai nemici in battaglia, né divenne mai rosso di sangue per le divisioni interne", alludendo al fatto che dopo la vittoria dei Guelfi del 1251, lo stemma di Firenze, da giglio bianco in campo rosso, fu mutato in giglio rosso in campo bianco. |
02/12/2009 00:00:00 | Con il XV canto del Paradiso ha inizio la trilogia di Cacciaguida, l'antenato di Dante che morì verso il 1147 combattendo nella seconda crociata (1147-1149), al seguito di Corrado III Hohenstaufen, e per questo è collocato nel cielo di Marte, riservato agli spiriti combattenti per la fede. I tre canti che ricopre il suo dialogo con Dante sono quelli centrali del Paradiso, e in essi Dante ribadisce la propria missione politica e morale. Il canto dei beati si interrompe come se fossero corde di una lira suonata da Dio. Questa sincronia fa riflettere Dante: se esse tacquero assieme per ascoltarmi, sicuramente saranno pronte ad ascoltare le preghiere dei meritevoli; e chi, per amore di beni illusori, si priva di quell'amore vero, merita una pena senza fine. Dal braccio destro della croce si muove un'anima, simile a una stella cadente per luminosità e velocità, percorrendo prima il braccio e poi il tronco fino ai piedi della croce. Poi si rivolge con affetto verso Dante, similmente a come, secondo Virgilio, venne incontro l'ombra d'Anchise al figlio Enea nei campi Elisi, e inizia a parlare in latino: "O sangue del mio sangue, o sovrabbondante grazia divina, a chi come a te si aprirono due volte le porte del cielo?" (noi sappiamo che già nel secondo canto dell'Inferno, Dante aveva detto a Virgilio: "io non sono Enea, io non sono San Paolo", e non a caso Dante ha appena citato Enea ed Anchise). Dante si volge con stupore verso Beatrice, ma il suo stupore aumenta fino a fargli credere di aver raggiunto il culmine della beatitudine, vedendo come era cresciuta la sua bellezza. Lo spirito continua a parlare, rivolgendosi a Dio con concetti tanto elevati che Dante non è in grado di intenderli, poi quando il suo ardore torna ad un livello intellegibile anche ai mortali, le prime parole che Dante capisce sono di ringraziamento verso Dio, per essere stato così generoso con la sua discendenza; poi torna a rivolgersi a Dante: "Figlio mio, hai sciolto un'attesa che iniziò appena vidi nell'immutabile volontà di Dio che eri destinato a venire qui, grazie a Beatrice che te ne ha dato le capacità. So che credi che io possa vedere il tuo pensiero in Dio, e di anticiparlo così come è possibile derivare dal concetto di uno, anche gli altri numeri, e per questo non mi chiedi perché io sia più gioioso degli altri nell'accoglierti. È vero, ma per adempiere meglio ciò che deve essere, dai voce sicura, balda e lieta al tuo desiderio, a cui è già pronta la mia risposta". Di nuovo Dante si volge verso Beatrice, e un suo sorriso lo incoragga a parlare, dapprima scusandosi se la sua capacità di esprimersi non è all'altezza di quella dei beati, che ricevono da Dio intelletto e sentimento in modo uguale, mentre lui non riesce a ringraziare adeguatamente quanto vorrebbe dentro al suo cuore. Poi chiede a lui, gemma preziosa in questo prezioso gioiello del cielo di Marte, di fargli conoscere il suo nome. E lo spirito ricomincia: "O discendente in cui mi sono compiaciuto già solo aspettandoti, io sono stato la tua radice. Colui da cui il tuo cognome ha avuto origine, che gira da cent'anni nella prima cornice del Purgatorio (quella dei superbi), fu mio figlio e tuo bisnonno. È opportuno che tu alleggerisca le sue pene con la tua opera". Poi inizia il ritratto della Firenze antica in cui egli nacque: "Firenze era ancora tutta dentro la prima cerchia di mura, dove si trova la Badia che ancora oggi suona le ore, e stava in pace, sobria e pudica. Le donne non indossavano ornamenti che fossero più vistosi della loro persona stessa. Non c'era l'uso di dare doti così alte alle figlie, per cui oggi la nascita di una femmina è ritenuta una disgrazia. Non c'erano case così sfarzose da essere troppo grandi, e quindi con tante stanze vuote; non dilagava la lussuria per cui era famoso il re assiro Sardanapalo; la città non si era ingrandita rapidamente e con sfarzo verso il colle Uccellatoio, superando il Montemalo (o Monte Mario) di Roma, che però, come è stato superato nel crescere, così sarà superato anche nella decadenza. Ho potuto vedere i nobili delle migliori casate, Bellincione Berti, i Nerli i Vecchietti, andare vestiti in modo sobrio, e le loro donne non usare il trucco, e badare ai lavori di filatura domestica. Non dovevano temere di morire in esilio, o di essere lasciate a lungo sole per i commerci del marito estesi fino in Francia. Una accudiva il bimbo nella culla, parlandogli con i versi che divertono i giovani genitori; l'altra, mentre filava, raccontava ai figli e ai servi le antiche storie dei troiani, di Fiesole e di Roma. Una Cianghella (donna dissoluta della Firenze di Dante), o un Lapo Salterello (uomo pubblico disonesto), avrebbero suscitato allora tanta meraviglia quanta oggi ne susciterebbero personaggi integri ed onesti come Cincinnato e Cornelia (la madre dei Gracchi). In una tale idilliaca Firenze sono nato, mentre mia madre implorava il nome di Maria, e nel Battistero diventai cristiano e mi fu dato il nome di Cacciaguida. Mio fratello fu Moronto ed Eliseo (non è chiaro se sono due fratelli o due nomi dello stesso fratello), mia moglie venne dalla val Padana, e dal suo casato diedi nome al figlio da cui poi è derivato il tuo cognome. Poi ho seguito l'imperatore Corrado, che servii tanto bene che volle farmi cavaliere. Insieme a lui sono andato a combattere in Terrasanta, dove gli infedeli che occupano ingiustamente i luoghi che i Papi dovrebbero avere più cura di proteggere, mi uccisero in battaglia, sciogliendomi dai legami di questo mondo illusorio, per amore del quale si perdono tante anime; e dal martirio, sono stato assunto direttamente alla pace di questo cielo". |
18/11/2009 00:00:00 | Il XIV canto del Paradiso inizia con una similitudine che a noi moderni richiama subito le onde sonore, ma che ai tempi di Dante aveva come precedente solo il trattato sulla musica di Severino Boezio: come le onde in una bacinella divergono dal centro al cerchio, se si colpisce il centro, o dal cerchio al centro, se si colpisce il bordo della bacinella, così Dante immagina la voce di Beatrice, vicino a lui, rispondere a quella di Tommaso, nella corona di anime che li circonda, per anticipare a loro un dubbio che Dante non ha ancora neanche pensato, e cioè, poiché sappiamo che dopo il Giudizio Universale i corpi resusciteranno per riunirsi con le anime, se in quel momento la luce che li riveste si farà più intensa, e in tal caso, come faranno i loro occhi corporei a sopportarne la vista. La domanda suscita nelle anime un nuovo moto di letizia, con un nuovo canto la cui dolcezza non può essere immaginata da chi sopporta ancora le fatiche della vita: a qualsiasi merito sarebbe giusta ricompensa, quel canto che celebrava Dio come Padre, Figlio e Spirito Santo, in tre persone, due nature (la natura divina e umana di Cristo) e una sostanza. Dal cerchio più vicino si leva poi una voce reverente quanto quella dell'Arcangelo Gabriele per l'Annunciazione a Maria, e che viene identificata con quella di Salomone (la luce più divina, ovvero la più risplendente, come era stato detto da Tommaso al momento della sua presentazione). Egli spiega: "la nostra luce si irradierà per sempre. La sua luminosità è causata dall'ardore di gratitudine verso Dio, e la gratitudine, dalla profondità della nostra visione di Lui, che è tanta quanto la grazia divina ci concede oltre il nostro merito. Quando anche la carne rivestirà la nostra persona, la nostra gratitudine aumenterà ancora, e questo accrescerà la grazia illuminante che il sommo bene, Dio, ci dona, permettendoci così di vedere Lui più profondamente, e quindi aumentare ancora il nostro ardore di gratitudine, e di conseguenza la nostra luminosità. Ma come il carbone che sprigiona la fiamma riesce a rimanere visibile perché la sua luce è più intensa, così il fulgore che oggi ci circonda sarà vinto dalla luminosità del corpo, lo stesso che oggi giace ricoperto di terra. Tuttavia, tanta luce non affaticherà i nostri occhi, perché tutti gli organi di senso saranno resi idonei a reggere tanta grazia". A questo punto, un coro di "Amen" ("Amme", in una forma dialettale di tono quasi infantile) sembra dare a Dante un indizio del desiderio che, sia pure nella loro beatitudine, nutrono queste anime celesti; forse, egli suggerisce, non tanto per loro, ma per le loro mamme e gli altri parenti, che potranno vedersi di nuovo come furono prima di morire. A questo punto, dall'orizzonte sembrano levarsi tante altre anime, che appaiono gradualmente come le stelle che iniziano a farsi riconoscere dopo il tramonto. In breve la loro luminosità, che rispecchia lo sfavillare dello Spirito Santo, cresce fino a diventare accecante, e Dante deve distogliere lo sguardo. Egli lo rivolge allora al volto di Beatrice, così bello da superare la capacità della mente di ricordarlo, e tramite suo Dante risolleva gli occhi, e in un attimo si trova trasportato nel prossimo cielo, che è quello di Marte, dalla luminosità rossa come il fuoco, dove incontrerà gli spiriti che combatterono per la fede. Dante ringrazia Dio offrendosi a Lui con tutto l'ardore del suo petto, fino ad esserne esausto: ma l'accettazione del suo sacrificarsi gli è manifestato dall'apparirgli di un luccichio di anime splendenti e rosse all'interno di due raggi di luce posti a croce, tanto da fargli ammirare Dio (qui chiamato "Eliòs" mischiando la parola greca che significa "Sole" con quella ebraica che significa "Dio"), per come le abbia adornate, o rivestite (in francese "adober" significava "armare cavaliere"). Queste luci compongono una figura di croce a bracci uguali (come quella che divide i quadranti di un cerchio) , costellandola in modo simile alle stelle più e meno luminose situate lungo la fascia verticale che la Galassia traccia nel cielo. In un modo che Dante si dichiara incapace di descrivere, all'interno di quella croce lampeggiava la figura di Cristo, ma si attende di essere scusato da chi, seguendo Cristo nel suo sacrificio per gli altri, avrà la grazia di ammirare anche lui quella visione. Lungo il braccio orizzontale e quello verticale si muovevano le luci delle anime, che incontrandosi aumentavano di luminosità. In modo simile si possono vedere le particelle di pulviscolo muoversi nel raggio illuminato che trapela da una fessura, quando si sta al riparo del sole all'ombra di qualche rifugio. E come la musica prodotta dalla giga o dall'arpa (la giga era un altro strumento con molte corde che potevano essere suonate insieme), che è soave anche per chi non riesce a distinguere le singole note, così quelle luci cantavano una melodia che rapisce Dante anche se non riesce a intendere se non che "Resurgi" e "Vinci", riferite a Gesù Cristo. Dante afferma di non aver mai visto una cosa che lo rapisse con maggiore dolcezza. Poi però precisa a chi pensa che egli dimentichi di come sia incantato dagli occhi di Beatrice, che fino a quel momento non li aveva ancora rimirati di nuovo, e dunque la sua affermazione può essere giustificata, perché anche lo sguardo di Beatrice, come tutto ciò che vede in Paradiso, è destinato ad apparirgli sempre più bello. |
31/10/2009 00:00:00 | Oltre al canto di Dante, oggi ho preparato anche il racconto del Diacono Martino, tratto dall'Adelchi di Alessandro Manzoni, che ho aggiunto nella pagina dedicata alla recitazione, nella zona che raccoglie gli altri brani del Manzoni che avevo già preparato in precedenza. Il XIII canto del Paradiso è ancora ambientato nel cielo del sole, dove riprende la danza delle anime sapienti intorno a Dante e a Beatrice. Chi desidera immaginare quello che videro, deve mentalmente mettere insieme le quindici stelle più lucenti del cielo, insieme alle sette dell'Orsa Maggiore (che formano il grande carro che resta visibile nel nostro emisfero in ogni stagione), più le due stelle dell'Orsa Minore (o piccolo carro) che sono le più lontani dalla stella Polare (intorno alla quale ruotano tutti i cieli), che possono essere viste come l'imboccatura di un immaginario corno che ha la stella Polare come vertice. Immagini di disporre queste stelle a formare due costellazioni concentriche a forma di corona, come la "Corona Boreale" che mitologicamente si narra essere stata formata quando morì Arianna, figlia di Minosse, e immagini queste due corone ruotare in sensi opposti: questo non dà che una pallida idea della sua visione, perché nel Paradiso tutto è così diverso da quello che noi siamo abituati a vedere, quanto il Primo Mobile, il cielo che gira più velocemente degli altri, è più rapido della Chiana, un fiume toscano molto lento e all'epoca paludoso. L'inno che i beati cantavano non celebrava né Bacco né Apollo ("Peana" è un nome di Apollo che poi indicò anche il canto in suo onore), ma la Santissima Trinità, nelle tre persone dalla natura divina, una delle quali (il figlio) ha, insieme alla natura divina, anche la natura umana. Una volta completato il loro giro cantando, le anime si rivolgono di nuovo a Dante, e Tommaso, che già aveva narrato la vita di San Francesco, riprende la parola: dopo aver risolto il primo dubbio di Dante, che lo ha immagazzinato come fosse grano, la carità lo spinge a risolvere anche il suo secondo dubbio. Infatti, Dante pensa che Adamo, dal cui petto Dio trasse la costola per formare il bel viso di Eva, la cui gola però fu così dannosa a tutto il genere umano, ed anche Gesù Cristo, il cui petto fu forato sulla croce dalla lancia del soldato romano, e il cui sacrificio ha permesso agli uomini di superare il peso delle loro colpe, essendo stati generati direttamente da Dio, siano dotati di ogni virtù al massimo grado possibile per la natura umana: per questo gli sembra una contraddizione l'affermazione, riportata da Tommaso ma già presente nelle Scritture, che nessuno fu mai sapiente come Salomone, che è la quinta luce nella stessa corona di anime dove si trova Tommaso. Egli prosegue confermando a Dante che tutte le cose create sono generate direttamente o indirettamente da Dio, la cui luce, specchiata e filtrata in tanti modi diversi attraverso i nove cieli, arriva fino alla Terra attenuata fino a produrre solo cose corruttibili e mortali (come Beatrice ci ha già spiegato nell'ultima parte del VII canto). Così è corruttibile anche la materia che compone il mondo e i corpi degli uomini (l'anima invece è sempre creata direttamente da Dio, come ci ha già spiegato Stazio nel XXV canto del Purgatorio), e per questo gli uomini nascono con ingegni diversi, come alberi diversi che dànno frutti diversi (come ci ha già spiegato Carlo Martello nel canto VIII). La natura è mutevole e presenta sempre qualche difetto, come la mano tremante di un artista, per quanto egli sia esperto. Ciò che invece è creato direttamente da Dio è sempre perfetto, così come fu creato Adamo (secondo la Genesi, soffiando un alito di vita sulla polvere della terra), e Gesù Cristo (da Maria fecondata dallo Spirito Santo). Così anche Tommaso sotto questo aspetto è d'accordo con Dante, che allora vorrebbe chiedere in che modo si possa intendere che Salomone ebbe una sapienza senza pari. A dire il vero, a noi moderni pare che nella sua risposta Tommaso si metta a cavillare sulla sua stessa affermazione (che poteva essere dunque più chiara sin dall'inizio): nella circostanza in cui Dio invitò Salomone a chiedere una grazia, Salomone chiese di essere un re saggio. Non chiese di essere depositario altri tipi di sapienza, come conoscere il numero dei motori celesti (questione presa ad esempio di futile diatriba teologica), o se da una cosa necessaria ed una contingente possa dedursi un'altra cosa necessaria (questione logica) o se sia possibile ammettere che esista un moto che non abbia come causa un moto precedente (questione fisica), o se sia possibile inscrivere in un semicerchio un triangolo che abbia un lato lungo il diametro e non sia rettangolo (questione geometrica), tutte questioni che è inutile cercare di dimostrare: a Salomone fu concesso di non avere pari in "regale prudenza", e quindi l'affermazione precedente di Tommaso va intesa nell'ambito di questa restrizione, che dunque si applica solo ai re, che sono molti, ma pochi di essi sono buoni. Conclude Tommaso: questo esempio sia da lezione a Dante di come occorra muoversi con i piedi di piombo nelle questioni che non si conoscono bene, perché è da stolti giudicare superficialmente "ad ogni piè sospinto", e l'opinione pubblica facilmente si convince di cose sbagliate, e poi si affeziona ai propri pregiudizi. Ma in questo modo si creano errori che producono molto danno, come provano le idee sbagliate di Parmenide, Melisso e Brisso (Melisso era un seguace del filosofo Parmenide ed Aristotele criticava entrambi per le premesse errate da cui muovevano i loro ragionamenti, ed anche per i metodi scorretti che adottavano nelle loro deduzioni; Brisso o Brisone era un seguace di Euclide che Aristotele criticava per la sua soluzione errata al problema della quadratura del cerchio). Così fecero Sabellio (eretico che negava la Trinità) e Ario (eretico che negava la natura divina di Cristo, anche se ammetteva la sua partecipazione alla grazia divina), che deformarono il contenuto delle scritture come volti deformati (o forse deturpati) dalle lame delle spade. Ammonizione finale di Tommaso: le genti non siano troppo sicure a giudicare, come colui che stima il raccolto prima che sia maturato: Da uno sterpo intirizzito nell'inverno può a primavera nascere una rosa, mentre una nave che ha affrontato in modo sicuro il mare, può naufragare all'imboccatura del porto. Non credano donna Berta e ser Martino (nomi comuni popolarmente intesi come esempi di saccenteria presuntuosa, come noi diremmo "un Tizio Caio o un Pinco Pallo qualsiasi"), per aver visto uno rubare, un altro fare pie offerte, di poter prevedere il giudizio che Dio darà ad ognuno di loro: il ladro potrebbe sempre salvarsi, ed il benefattore essere dannato. |
20/10/2009 00:00:00 | Ho partecipato alla presentazione del libro "Indie Occidentali" di Gianfranco Micheli, che si è tenuta nella sala "Mario Tobino" del Palazzo Ducale di Lucca, ed ho letto tre brani del libro. Penso di fare cosa gradita all'autore e ai suoi lettori riproponendo la registrazione dei tre brani nella pagina dedicata alla recitazione, insieme alla riproduzione della copertina del suo libro. Per l'occasione, colto da produttiva ispirazione, ho registrato anche alcune altre poesie che volevo riproporre da tempo, ed ho completato il lavoro di editing su altre registrazioni che avevo in serbo da qualche giorno. Così, sempre nella pagina della recitazione, adesso potete ascoltare le nuove entrate: "Commiato" di Giuseppe Ungaretti, il "Coro dell'atto III dell'Adelchi" di Alessandro Manzoni, "Alla sera" di Ugo Foscolo (versione 2009), "L'infinito" e una nuova versione di "A Silvia" di Giacomo Leopardi. Non ancora pago, per gli impazienti ho rifatto anche la registrazione del canto XXXIII del Paradiso di Dante, che è in miglior sintonia con le registrazioni che sto collezionando nella pagina della Divina Commedia, ed infatti questa versione l'ho aggiunta anche in fondo a quella pagina. Inoltre, anche se il suo punteggio di gradimento è stratosferico, mi sono reso conto che alcuni contatti dall'estero interpretano 1 come voto massimo, e 5 come voto minimo, così ho aggiunto una legenda più chiara in italiano e in inglese. Adesso se ricevo un voto basso non mi starò più a illudere che sia un voto alto interpretato male. |
11/10/2009 00:00:00 | Nel XII canto del Paradiso il francescano San Bonaventura replica al domenicano San Tommaso che nel canto precedente ha elogiato San Francesco, tessendo le lodi di San Domenico, come era in uso in segno di reciproco rispetto tra i due ordini. Il canto, anche nella struttura, ha molti punti di simmetria con il precedente. Appena il precedente discorso di San Tommaso si è chiuso, la ruota dei beati riprende a girare e cantare, e viene circondata da una seconda ruota di beati, che gira e canta allo stesso modo, con un canto così soave che vince quello delle Muse e delle sirene, come la luce diretta vince in intensità la luce riflessa. Le due ruote concentriche girano intorno a Dante e Beatrice come a volte si vede in cielo, sopra l'arcobaleno, un secondo arcobaleno meno intenso che ne sembra quasi l'eco; l'ancella ai comandi di Giunone è infatti Iride, mentre Eco è la ninfa che si consumò per l'amore non corrisposto per Narciso; inoltre l'arcobaleno è considerato un segno della pace di Dio con gli uomini, perché con esso promise a Noè di non mandare più un altro diluvio universale. Quando questa festa di cori e luci piene di gioia e di carità si acquieta, con una sincronia come quella con cui si muovono gli occhi, una delle nuove luci si rivolge a Dante, che si volta verso di lei come l'ago della bussola verso la stella polare. Dice la voce: l'amore che mi pervade mi spinge a parlare dell'altro condottiero della fede, dopo che si è parlato così bene del mio, perché è giusto che la gloria risplenda insieme su di loro, in quanto entrambi combatterono per la stessa causa. Infatti quando i cristiani si stavano disperdendo ed erano in dubbio, la grazia di Dio volle mandare in loro soccorso due campioni della fede, per riunirli e farli ravvedere. In quella parte del mondo dove soffia lo Zefiro, che dall'oceano Atlantico porta in Europa l'aria mite della primavera, là dove il sole tramonta nel solstizio estivo, quando il suo corso è più lungo, là si trova Calaroga, in Castiglia, che ha per stemma uno scudo dove nella metà di sinistra si ha una torre sopra un leone, e nella metà di destra un leone sopra una torre. Qui nacque Domenico, il fedele servitore della fede cristiana, il santo difensore dei buoni cristiani e duro contro gli eretici. Appena Dio creò la sua anima, era già così piena di virtù da infondere visioni profetiche alla madre che lo teneva in grembo. Il suo battesimo sancì il matrimonio tra lui e la fede, in cui mutuamente si donarono la salvezza, in quanto con quell'atto egli fu liberato dal peccato originale, e poi con la sua opera egli avrebbe difeso la fede dalle eresie, e poiché la donna che gli fece da madrina ebbe in sogno delle visioni che ne simboleggiavano la futura grandezza, da ispirazione celeste decise di chiamarlo con l'aggettivo che indica la sua appartenenza a Dio: Domenico infatti significa "del Signore". Egli fu l'agricoltore che Cristo inviò a coltivare il suo orto, cioè la Chiesa. Ben presto rivelò la sua natura di inviato e servitore di Cristo, ed il primo sentimento che manifestò fu conforme al primo consiglio che Cristo diede ai discepoli, sulla cui identificazione c'è qualche dubbio, ma dal contesto si capisce che è un riferimento all'umiltà e alla povertà. Da notare come, per rispetto, Dante faccia rimare "Cristo" solo con sé stesso (accade solo nel Paradiso, ai canti 12, 14, 19 e 32). Infatti, capitò alla sua nutrice di trovarlo sveglio a pregare per terra, come per dire "Sono nato per questo". Suo padre poteva ben essere Felice, come significa il suo nome, come sua madre Giovanna, che etimologicamente deriva da "Yochanan" che significa qualcosa come "piena di grazia". Egli non ricercò gli onori mondani, come molti fanno seguendo l'Ostiense (si affannano nello studio del diritto canonico come Enrico di Susa detto l'Ostiense) o seguendo l'esempio di Taddeo (forse Taddeo d'Alderotto che ebbe una celebre scuola medica a Bologna; in questo caso l'Ostiense e Taddeo richiamerebbero "dietro a iura e... ad amforismi" del canto precedente), ma divenne ben presto dottore della vera sapienza, la teologia, così da mettersi a fare la guardia alla vigna, la Chiesa, che appassisce se il vignaio, il papa, non fa il proprio dovere. Ed alla sede pontificia, che in passato fu più benevola con i poveri, ma non adesso, per colpa di chi vi risiede, che si allontana da Dio, egli non chiese né parte di ciò che spetta ai poveri, né la rendita di qualche proprietà ecclesiastica disponibile, né chiese le decime, che spettano ai poveri (e non agli ecclesiastici), ma la licenza di combattere gli errori degli eretici, per quella fede da cui sono germogliati i ventiquattro sapienti che formano le due corone di beati. Poi, con il mandato conferitogli dal papa, si mosse come un torrente impetuoso contro gli eretici, con più forza là dove c'era più resistenza. Tristemente famosa è la sanguinosa crociata contro gli Albigesi (1213), anche se nessuna violenza è imputabile personalmente a san Domenico. Dal suo ordine si originarono poi i Predicatori, le suore Domenicane e il Terz'Ordine, o comunque altri monasteri, che contribuirono a rendere viva la Chiesa cattolica. Se tale fu la vita di una ruota del carro che rappresenta la Chiesa (come nel XXIX del Purgatorio), puoi immaginare la grandezza dell'altra ruota, San Francesco, che San Tommaso ha celebrato così bene. Ma ormai il solco che quella ruota ha tracciato è trascurata, come le incrostazioni del vino in una botte non curata diventano muffa; i suoi frati, che un tempo camminavano dritti, ormai sono tanto perduti, che il piede davanti torna verso il piede dietro; e presto si vedrà quando al raccolto (del giudizio di Dio) il loglio, le erbacce, saranno separate dal grano, e si lamenteranno invano di aver perduto la salvezza. Certo, se si esaminano tutti i nostri confratelli, come le pagine di un libro, su alcune sarebbe scritto "io sono rimasto come dovevo essere", ma non su quella di Ubertino da Casale, che tende ad irrigidire la regola (corrente degli spirituali), né su quella di Matteo d'Acquasparta, che tende a rilassarla (corrente dei conventuali). Finalmente la voce si presenta: è San Bonaventura da Bagnoregio, teologo, filosofo e mistico francescano, coetaneo e compagno di studi di san Tommaso alla Sorbona, che si occupò con maggior cura delle cariche che ricoprì, che delle cose mondane. Accanto a lui sono Illuminato da Rieti e Agostino d'Assisi, che furono tra i primi seguaci di San Francesco. Con loro stanno Ugo da San Vittore (rappresentante della scuola mistica ed autore di opere filosofiche), Pietro Mangiadore (autore di opere religiose ritiratosi nel monastero di San Vittore), Pietro Spano (nato in Spagna), di cui è rimasta fama per la sua opera "Summulae logicales" in dodici libri (e fu anche papa con il nome di Giovanni XXI). Seguono il profeta Natan, che rimproverò a David l'adulterio con Betsabea e l'uccisione di suo marito Uria, San Giovanni Crisostomo, patriarca metropolitano di Costantinopoli di grande eloquenza, Anselmo d'Aosta, famoso teologo e filosofo che affermò la precedenza della fede sulla ragione ("credo ut intelligam"), Elio Donato, famoso maestro di grammatica, che era la prima delle tre arti del Trivio, Rabàno Mauro, autore di opere teologiche ed esegetiche, e il calabrese Gioacchino da Fiore, che fondò il monastero di san Giovanni in Fiore nella Sila, e scrisse opere di carattere visionario e profetico; in vita, Bonaventura criticò gli spirituali Gioachiniani, come san Tommaso criticò Sigieri di Brabante, che gli sta accanto nella prima corona: evidentemente Dante aveva una larghezza di pensiero in grado di coinciliare i loro diversi insegnamenti. Conclude Bonaventura: ad elogiare il paladino san Domenico mi ha spinto l'appassionata lode che Tommaso ha fatto di san Francesco, e il suo discorso chiaro; e con me, si è mossa tutta questa seconda corona di spiriti beati. |
24/09/2009 00:00:00 | Il canto XI del Paradiso è dedicato a San Francesco, le cui lodi sono declamate da San Tommaso, secondo la tradizione di reciproca cortesia che vigeva tra i frati francescani e domenicani, secondo la quale la lode di un santo era declamata da un membro della confraternita fondata dall'altro santo. Il canto si apre con la considerazione di Dante su come appaiano vane e dispersive tutte le attività umane, viste dall'alto dei cieli dove si trova accolto con Beatrice. Intanto la corona dei beati ha compiuto un intero giro, e la luce di Tommaso si rivolge di nuovo a lui, poiché, vedendo attraverso Dio i pensieri di Dante, egli vuole sciogliere i dubbi che vi ha visto sul suo discorso precedente, quando ha detto "u' ben s'impingua (se non si vaneggia)", riferito all'ordine dei domenicani (di cui fa parte) e "non nacque (non surse) il secondo", riferito a Salomone e alla sua ineguagliabile saggezza. Notiamo che, essendo nel cielo del Sole, che non ha più alcun influsso residuo dell'ombra della Terra, Dante non ha più bisogno di interrogare i beati, come ha continuato a fare fino al cielo di Venere, perché essi, come già egli auspicava, vedono i suoi desideri e con prontezza prevengono le sue domande. Tommaso inizia la spiegazione della prima frase, prendendola molto alla lontana: la provvidenza, per sostenere la Chiesa, che Cristo sposò con il sangue sulla croce, perché la sposa fosse più sicura e più fedele, inviò due prìncipi per guidarla: Francesco, ardente di carità come un Serafino, e Domenico, con una sapienza luminosa quanto quella dei Cherubini. Egli parlerà di Francesco, ma spiega che, lodando chi si voglia tra questi due, si lodano comunque entrambi, perché le loro opere furono indirizzate allo stesso fine. Tommaso descrive con una perifrasi geografica la località di nascita di San Francesco: tra il fiumicello Tupino e il corso d'acqua (Chiascio) che scende dal colle dove stette in eremitaggio all'inizio del dodicesimo secolo il beato Ubaldo Balassini (che poi diventò vescovo di Gubbio), si trova il massiccio del Subasio, alle cui pendici stanno, a occidente, la città di Perugia, che apre verso di esso la sua "Porta Sole", e ad oriente, esposti a condizioni atmosferiche meno miti, Nocera Umbra e Guado Tadino. Sul versante meno ripido che dà verso Perugia, nacque un sole, come fa questo stesso del cielo in cui ci troviamo, che nel giorno dell'equinozio pare sorgere dal Gange (per Dante, in estremo oriente). Per questo, il luogo dove egli nacque, piuttosto che Assisi (che deriva etimologicamente da "ascesi"), dovrebbe essere più propriamente chiamato "Oriente". Ancora giovane, iniziò a manifestare le sue virtù, e contro la volontà paterna, al suo cospetto ed apertamente davanti a tutti prese in moglie una tal donna che tutti rifuggono come la morte, e che da più di mille e cento anni stava vedova e disprezzata da tutti. Non le valse l'esser nota come sicura, giacché in virtù di essa Amiclate, umile barcaiolo dell'Epiro, non ebbe soggezione nemmeno di Cesare in persona, quando egli entrò imperiosamente nella sua misera capanna di canne, che aveva l'uscio sempre aperto, come narra Lucano; né le valse essere stata fedele e fiera sposa di Cristo tanto che, mentre Maria rimase ai piedi della croce, ella salì sopra con lui; fuor di metafora, il giovane sole è Francesco, e la sposa è la Povertà, che Dante accosta implicitamente alla Chiesa intera, presentandola anch'essa come "sposa di Cristo" (in conformità con altri passi in cui biasima la commistione tra potere secolare e potere ecclesiastico, e il possesso di beni terreni da parte della Chiesa).La unione serena tra Francesco e Povertà fu così ammirata che subito tanti altri vollero imitarlo: prima Bernardo di quintavalle, da non confondere con Bernardo di Chiaravalle che Dante incontrerà negli ultimi canti del Paradiso, poi Egidio, giovane semplice, Silvestro, già prete di Assisi, che si fece seguace in seguito ad un sogno, ed altri che in breve tempo formarono una comunità, che già si distingueva per indossare l'umile saio legato con la corda. Né l'essere figlio di Petro Bernardone, un semplice mercante, né l'avere un aspetto così trascurato, mise a Francesco alcuna soggezione, quando si presentò davanti al papa Innocenzo III, che diede il primo assenso verbale alla sua rigida regola. I suoi seguaci si moltiplicarono velocemente, e il papa Onorio III, ispirato dallo Spirito santo, concesse a questo determinato pastore l'assenso formale con la bolla pontificia del 1223. Francesco poi andò a predicare in Terrasanta, al cospetto del sultano d'Egitto che lo accolse benevolmente ma non volle convertirsi; quando Francesco si rese conto che di più non poteva sperare, tornò in Italia e qui, su una rocca desolata tra il Tevere e l'Arno (la Verna), ricevette le stimmate da Gesù Cristo, come terzo sigillo di assenso divino. Morì di lì a due anni, circondato dai suoi frati, a cui raccomandò la sua donna (la povertà) perché continuassero ad amarla, e morì nel suo grembo, non volendo altra bara che la nuda terra. Si rivolge di nuovo Tommaso a Dante: pensa come deve essere stato grande Domenico, se potè essere suo degno collega nel governare la barca di Pietro (la Chiesa). Eppure i suoi seguaci si perdono oggi dietro a nuovi studi non propriamente teologici, e come pecore avventurate in pascoli troppo lontani, tornano all'ovile con poco latte da mungere; ce ne sono alcune che restano vicine: ma sono così poche, che poco panno è sufficiente per fare le cappe che le rivestono. Se mi hai seguito attentamente, adesso dovresti avere sciolto il primo dei due dubbi che avevi, perché dovresti aver capito da dove si scheggia la pianta dei frati domenicani, e il motivo della correzione presente nella mia frase in cui affermavo che nei loro conventi si è ben nutriti, se non ci si perde in studi inutili. Questa chiusa che ribadisce l'inutilità degli studi non propriamente teologici richiama la considerazione di Dante in apertura, che vedeva tutti i mortali affannarsi dietro occupazioni che apparivano ugualmente vane, in confronto alla sua esperienza diretta di rivelazione di quella massima sapienza che era per lui la teologia. |
23/09/2009 00:00:00 | Mentre ancora devo completare i commenti al prossimo canto del Paradiso (che ho già registrato), segnalo di aver aggiunto all'elenco delle poesie nella pagina dedicata alla recitazione "La pioggia nel pineto" di Gabriele D'Annunzio, gentilmente richiesta da mio caro amico Stephen Peter Cricken, a cui la dedico volentieri. Buon mio compleanno a tutti! |
08/09/2009 00:00:00 | Il X Canto del Paradiso si apre con una lode alla creazione di Dio, che guarda al Figlio mentre da uno all'altro soffia lo Spirito Santo. L'ordine dei cieli e delle intelligenze celesti che li muovono esprime una bellezza che percepiscono tutti coloro che lo ammirano. Guarda, o lettore, verso il punto equinoziale in cui i moti del sole e dello zodiaco si incrociano, e vedi come l'inclinazione dei loro piani sia stata scelta in modo preciso per permettere le influenze celesti e considera come, se essa fosse stata poco maggiore o minore, sarebbe sconvolto l'ordine della Terra. Oggi sappiamo che se veramente l'inclinazione della rotazione terrestre fosse poco diversa, il ritmo delle stagioni sarebbe così sconvolto da rendere la Terra inadatta ad ospitare la vita. Mentre oggi gli scienziati si appellano al principio antropico (che nella sua forma "debole" afferma che anche se le condizioni adatte alla vita sono molto particolari, necessariamente ogni vita evoluta non potrà che constatarle intorno a sé); ma all'epoca di Dante non si poteva che attribuire questa coincidenza alla precisa volontà di Dio. Prosegue Dante: resta attento, o lettore, alle mie parole, se vuoi trarne un utile nutrimento, mentre proseguo il mio racconto. Il Sole, che più di ogni altro pianeta influenza la Terra e ne scandisce il tempo, era congiunto proprio al punto equinoziale, nella parte del suo percorso in cui ogni giorno successivo sorge un po' prima, quando Dante, con la scorta di Beatrice, entra nel suo cielo, senza accorgersene, come l'uomo non si può accorgere dei pensieri che gli nascono in mente, se non quando sono già presenti. Qui le anime del quarto ordine dei beati sono così luminose da poterle distinguere nella luminosità del Sole, che è la cosa più luminosa che possiamo ammirare in vita. Beatrice esorta Dante a ringraziare Dio, e Dante si immerge nella devozione tanto da dimenticarsi per un attimo anche di Beatrice; ma il compiacimento stesso di Beatrice la rende così bella che di nuovo il poeta è distolto dalla preghiera. Le anime vicine si dispongono in cerchio attorno a loro, cantando in modo ancora più dolce di quanto non fossero luminose, così bello da non poter essere descritto. L'alone che formano è simile a quello della Luna quando l'aria è umida (la figlia di Latona è Diana, la dea mitologicamente associata alla Luna). Dopo tre giri, le anime si fermano, come danzatrici in attesa della ripresa della musica, e un'anima si rivolge a Dante: "La grazia risplende in te tanto da condurti su per questi cieli, da cui nessuno scende sulla Terra senza poi risalire; e chi ti negasse la conoscenza che desideri, non sarebbe libero come l'acqua che fosse impedita di scendere verso il mare. Tu vuoi sapere da chi è composta questa ghirlanda di anime: io sono stato un agnello del gregge di san Domenico, dove si cresce bene, se non ci si perde in vanità (questo verso sarà ripreso nel prossimo canto); alla mia destra, sta Alberto Magno di Colonia, che fu frate insieme a me e mio maestro (che fu chiamato doctor Universalis); io sono Tommaso D'Aquino (che all'epoca in cui Dante scriveva ancora non era stato fatto santo). Se vuoi conoscere gli altri, segui le mie presentazioni: accanto a noi, risplende il sorriso di Graziano, che rese concordi la legge civile e la legge ecclesiastica (la sua opera più importante fu il riordino dei testi e dei canoni ecclesiastici, ponendo le basi del diritto canonico). Poi vedi Pietro Lombardo, che scrisse una raccolta di sentenze dei padri della Chiesa, e nel prologo affermò di offrirli a Dio come l'elemosina della povera vedova nel Tempio, raccontata nel vangelo di San Luca, che offrì a Dio solo due monete, ma che rappresentavano tutto il suo capitale, e perciò fu l'offerta più gradita. La quinta luce è la più splendente di questo cielo, e nel mondo alcuni si chiedono se sia in Paradiso: egli fu depositario di tanta sapienza, che nessuno più ebbe in grazia di avere (si tratta di re Salomone, proverbialmente saggio, ma le cui intemperanze in vecchiaia alimentarono l'opinione che potesse essere stato dannato). Accanto, vedi la luce di colui che più di ogni altro vide l'ordinamento e la natura degli angeli (Dionigi l'Aeropagita, che scrisse sulle gerarchie celesti); nella luce più piccola sorride il difensore dei tempi cristiani, citato spesso da sant'Agostino (si tratta probabilmente Paolo Orosio, che nella sua opera controbatteva agli avversari del cristianesimo, che affermavano come il mondo fosse peggiorato dopo il suo avvento). Se mi hai seguito, siamo all'ottava luce: in essa gioisce della visione di Dio l'anima di colui che indicò, a chi la seppe ascoltare, l'illusorietà dei beni mondani; il suo corpo è sepolto nella basilica di San Pietro in Ciel d'oro a Pavia (è Severino Boezio, che prima fu senatore e console ma poi, messo in prigione, scrisse il "De consolatione philosophiae", un testo fondamentale per la trasmissione della cultura latina nel medioevo, da cui Dante fu molto influenzato). Accanto, vedi le anime di Isidoro, di Beda e di Riccardo, che nella sua attività contemplativa fu più simile ad un angelo che ad un uomo (sono autori molto eruditi e famosi del medioevo, l'ultimo in particolare fu un mistico che scrisse della difficoltà di ricordare le esperienze di "excessus mentis", cosa che Dante riprenderà descrivendo la sua visione di Dio). L'ultimo, qui alla mia sinistra, è uno spirito tanto assorto in pensieri profondi e tormentosi, che attendeva la morte come una liberazione: è Sigieri di Brabante, che fece lezione alla Sorbona, nel Vicolo degli Strami (o della paglia), dimostrando con sillogismi delle verità scomode, che gli procurarono persecuzioni". Tutti questi dotti erano autori studiati alla Sorbona, la neonata università di Parigi, ed alcuni, come Sigieri, ne furono insegnanti. Dante probabilmente la frequentò, anche se forse non poté compiere un intero ciclo di studi, ma senz'altro ne fu influenzato ed ebbe modo di conoscere idee per quel tempo rivoluzionarie. Sigieri di Brabante, ad esempio, fu il massimo esponente del cosiddetto "averroismo latino", che riprese l'insegnamento di Averroè, che a sua volta si ispirava ad Aristotele. Sono stato folgorato apprendendo che una di queste idee è l'antesignana della "terza ipotesi" che propongo nelle mie pagine di filosofia: si tratta del "monopsichismo", cioè l'idea che l'intelletto sia fondamentalmente unico, mentre individuali resterebbero solo tutte le caratteristiche che ci distinguono tra noi (e tra ogni essere vivente). Il canto termina con una similitudine tra il meccanismo di un orologio (che testimonia dell'esistenza di orologi costituiti da congegni meccanici), che suona la sveglia perché la sposa di Dio (la Chiesa) si levi per recitare la preghiera mattutina a Cristo (lo sposo), e la ripresa del movimento circolare e del canto di quella ruota di beati, di tale dolcezza che non può essere conosciuta se non là dove la gioia diventa eterna. |
21/08/2009 00:00:00 | Poiché Dante, in apertura del Canto IX del Paradiso, si rivolge probabilmente a Clemenza d'Asburgo, moglie di Carlo Martello, che morì pochi mesi dopo di lui, è probabile che essa sia una muta presenza a fianco del marito; il quale accenna al sopruso che il figlio Caroberto subirà da parte di Roberto, fratello di Carlo, ma prega Dante di non riferire altro, se non che questa impostura causerà molto dolore. Poi torna a rivolgersi a Dio, il bene che satura ogni cosa, a cui gli uomini, creature empie, si distolgono per illusioni inutili. Si avvicina un altro spirito luminoso, e Dante, rassicurato come in precedenza dell'assenso di Beatrice, si rivolge ad esso chiedendo di dargli prova di come possa leggere i suoi pensieri; e questi gli risponde dichiarando, con una perifrasi geografica, i suoi natali e la sua identità: Si tratta di Cunizza da Romano, sorella del despota veneto Ezzelino III, nata come il fratello su un colle della Marca Trevigiana, che si estende da Venezia (citata attraverso il ponte Rialto) alle sorgenti del Brenta e del Piave. Ebbe diversi mariti ed amanti prima di dedicarsi a Dio e alle opere di carità, e probabilmente Dante da ragazzo ebbe occasione di vederla. Paragona suo fratello a una torcia che devastò la zona, mentre di sè dice di essere nel cielo di Venere perché in vita ne è stata influenzata, ma questo fatto ormai non è per lei motivo di fastidio, per quanto possa essere difficile per gli uomini comprenderne la ragione. Accenna ad un'anima che splende vicino a lei, che ebbe una fama che durerà ancora a lungo (forse Dante intende cinquecento anni), esempio di come una vita condotta in modo eccellente possa condurre alla seconda vita, quella celeste. Ma non si dedicano a questo gli attuali suoi concittadini, che risiedono tra i fiumi Adige e Tagliamento, malgrado la punizione che incombe su di loro. Cunizza fa tre profezie: presto la palude di Padova, che bagna Vicenza, avrà l'acqua colorata di rosso dal sangue di uno scontro tra Guelfi e Ghibellini che avvenne nel 1314; a Treviso, dove si uniscono i fiumi Sila e Cagnano (oggi Botteniga) uno dei capi che spadroneggiano verrà preso ed ucciso (Rizzardo da Camino, ucciso nel 1312); e Feltre piangerà per le malefatte del suo empio pastore (il vescovo Alessandro Novello), tali che nessun prigioniero è mai stato incarcerato in precedenza per cose simili (la "malta" era un nome che indicava popolarmente più di una prigione dell'epoca). Questo vescovo consegnò al vicario di Ferrara alcuni ferraresi che si erano rifugiati a Feltre, e che poi furono decapitati, per mostrarsi fedele al papa e agli Angiò. Non basterebbe una bigoncia, continua Cunizza, per contenere il sangue che fece versare, e si stancherebbe chi lo volesse pesare oncia per oncia. Fanno fede della verità di queste parole i Troni, il cui ordine angelico presiede alle stelle fisse, che riflettono i giudizi di Dio. Poi Cunizza torna a rivolgersi a Dio, e riprende il suo movimento. Si fa avanti allora l'altro spirito a cui lei aveva accennato, che rifulge per la letizia. Anche a lui Dante chiede di leggere i suoi desideri attraverso Dio, e di parlargli con la sua voce, che in cielo canta insieme ai Serafini, che sono rivestiti con tre paia di ali. Dante non aspetterebbe la sua domanda, se potesse leggerla in lui come egli può leggere nella mente di Dante ("intuarsi" vale "farsi te", come "inmiarsi" vale "farsi me", come in precedenza "inluiarsi" vale "farsi lui" e "incinquarsi" vale "farsi cinque", sono tutti neologismi di Dante che non sono rarissimi, ma in questo canto toccano il numero record di quattro). Anche il nuovo spirito descrive la sua terra natia con una perifrasi geografica: oltre all'Oceano che circonda tutte le terre, il mare che ha la maggiore estensione (il Mediterraneo), tanto che l'orizzonte di uno dei suoi estremi è circa a metà della sua lunghezza, è delimitato a nord e a sud dai lidi d'Europa e d'Africa. Egli nacque nella terra che giace tra i fiumi Ebro (che sfocia in Catalogna) e Magra (che per un breve tratto divide la Liguria della Toscana), e la sua città ha lo stesso meridiano (e gli stessi meridiani in cui il sole tramonta e sorge) di Bugia, città dell'Algeria. Si tratta di Marsiglia, il cui porto fu inondato di sangue in seguito all'assedio di Decimo Bruto, nel 49 a.C. È Folco o Folchetto di Marsiglia, che subì l'influsso di Venere, come egli dice, fino a che l'età glielo permise, più di Didone (la figlia di Belo), che mancò rispetto sia al defunto marito Sicheo, che a Creusa, la prima moglie di Enea, e più di Fillide, principessa della Tracia, delimitata dai monti Rodopi, che si uccise per amore di Demofoonte, che la sedusse e abbandonò, e anche più di Ercole, figlio di Alceo, che si innamorò di Iole, suscitando la gelosia della moglie Deianira, che per questo gli diede la camicia intrisa del sangue del centauro Nesso, pensando che lo rendesse fedele, ma invece causò la sua morte... Folchetto, dopo una giovinezza con fama di poeta d'amor cortese e grande seduttore, si ritirò a vita monastica e divenne vescovo di Tolosa, e responsabile della sanguinosa crociata endocristiana contro gli albigesi, che evidentemente Dante giudicava in modo diverso da come la si giudica oggi. Egli spiega a Dante che, nonostante le licenziosità commesse in vita, qui non si ha memoria della colpa, ma si ammira come Dio, modellando dal mondo celeste il mondo terreno, possa fare rivolgere al bene anche la passione amorosa. Un'altra anima risplende accanto a lui, e Folchetto spiega che si tratta di Raab, la prostituta di Gerico che ebbe fede nel Dio degli ebrei e aiutò gli uomini inviati da Giosuè, e che poi fu salvata e accolta tra loro quando la città fu conquistata e distrutta. Raab è presa come esempio di fede operosa, ed è la prima anima che Cristo, nel suo trionfo, assegnò al cielo di Venere, dove Dante (seguendo l'astronomo Alfragano) erroneamente pensava che potesse arrivare il cono d'ombra della Terra; e questo giustificherebbe un residuo di "influenza terrena" che avrebbero i primi tre cieli, della Luna, di Mercurio e di Venere, che costituirebbero un corrispondente alla zona iniziale dell'Inferno e all'Antipurgatorio, che non a caso occupano i primi nove canti delle due Cantiche precedenti. Con la lode di Raab, simbolo nel cielo di Venere della vittoria che Cristo conquistò con le mani aperte all'atto della sua crocefissione, Folchetto ricorda la prima vittoria di Giosuè in Terra Santa, ricollegandosi alle Crociate, per biasimare come ormai non interessino più al papa, e si lancia nella sua rampogna conclusiva, partendo da Firenze, descritta come generata da Satana (che primo voltò le spalle a Dio), perché diffonde il maledetto fiorino, per cui il gregge della Chiesa pensa più a quello che alle cose sacre, ed ha tramutato il pastore (il papa) in un lupo avido, che insieme ai cardinali, trascura i libri sacri per dedicarsi ai Decretali, i libri di tipo amministrativo e burocratico, come appare dai loro margini tutti consumati, mentre trascura la conquista della Terra Santa dove, a Nazareth, Gabriele annunciò a Maria, con le ali aperte per reverenza, la sua immacolata concezione. Ma presto il colle Vaticano e le altre parti di Roma che videro il martirio dei primi cristiani, saranno liberate dal responsabile dell'indegno adulterio... |
24/07/2009 00:00:00 | Nel Canto VIII del Paradiso, Dante e Beatrice raggiungono il terzo cielo, il cielo di Venere, che secondo la tradizione nacque a Cipro, dalle acque del mare, da Giove e Dione, ed ebbe da Marte il figlio Cupido. Virgilio racconta che, per fare innamorare Didone di Enea (figlio di Anchise e Venere), mandò Cupido, con le sembianze del figlioletto di Enea Ascanio, a sedere sul suo grembo. Il pianeta Venere è noto per apparire sempre vicino al sole, a volte seguendolo al tramonto, a volte precedendolo all'alba. Dante si accorge di averlo raggiunto, perché Beatrice diventa ancora più bella. Nella luce diffusa del pianeta, vede muoversi altre luci, che si distinguono come le voci modulate in un canto polifonico, che si avvicinano più veloci di turbini o lampi (che a quei tempi si credevano essere dei vapori accesi), discendendo dall'Empireo, attraverso il primo mobile mosso dagli angeli Serafini (dove hanno iniziato il loro moto). Essi cantano "osanna" in modo così dolce che il poeta non ha più smesso di desiderare di ascoltalo ancora. Uno di loro si fa avanti e parla a Dante, citando l'incipit di una sua canzone contenuta nel Convivio, spiegando che essi si muovono nel cielo di Venere con i Principati, l'ordine angelico a cui allude nel suo verso "Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete" (anche se, quando lo scrisse, Dante pensava che si trattasse dell'ordine dei Troni; ma le opinioni su questi ordini differiscono anche tra i teologi). Dante, dopo l'incoraggiamento di Beatrice, chiede all'anima chi sia, ed essa si illumina maggiormente, rispondendo che Dante lo riconoscerebbe, se la troppa luce non gli impedisse di vederne i lineamenti; e dalla descrizione che segue, sappiamo che si tratta di Carlo Martello, non il nonno di Carlo Magno, ma il suo omonimo nipote di Carlo I d'Angiò e figlio di Carlo II di Napoli. In questo canto si accenna anche ai suoi fratelli Roberto, re di Napoli dal 1309 al 1343, e Luigi, vescovo di Tolosa, santificato nel 1317 come San Lodovico. Dante ebbe modo di conoscere Carlo Martello quando venne a Firenze, e il giovane principe stimava il poeta come la sua citazione del verso del Convivio lascia intendere, e certamente avrebbe potuto aiutarlo e sostenerlo, se non fosse prematuramente scomparso. La sua identità si ricava dalla lunga perifrasi dei regni che gli spettavano: la Provenza (sulla riva sinistra della confluenza tra Rodano e Sorga), ed il regno meridionale di Napoli o di Puglia, descritto come un corno a mezzaluna che contiene le città Bari, Gaeta e Catona (vicino a Reggio Calabria), a sud dei fiumi Tronto (che sfocia nell'Adriatico) e Verde (Liri o Garigliano, che sfocia nel Tirreno). Nominalmente era già re d'Ungheria (attraversata dal Danubio dopo i territori tedeschi e austriaci), e di Sicilia (la Trinacria, che sul golfo tra Pachino -oggi Capo Passero- e Peloro -oggi Capo Faro- esposto al vento Euro -o Scirocco- fumiga a causa delle esalazioni di zolfo, e non per il gigante Tifeo, che sbufferebbe sepolto sotto l'Etna dopo essere stato fulminato da Giove), dove avrebbero potuto regnare anche i suoi figli, per suo tramite discendenti da Carlo I d'Angiò, e per tramite di sua moglie discendenti dall'imperatore Rodolfo I d'Asburgo (e quindi riunendo in un solo casato gli Angioini, sostenuti dai Guelfi, e la dinastia imperiale, sostenuta dai Ghibellini), se non fosse per il mal governo di Carlo I, che oppresse il popolo fino a spingerlo all'insurrezione dei Vespri Siciliani nel 1282 (gridando "muoiano i francesi!"). Seguono tre terzine dall'interpretazione controversa, in cui Carlo biasima il governo del fratello Roberto, che pur discendendo da un nobile casato, governa con avidità, per la cattiva influenza di funzionari o mercenari al suo seguito dalla Catalogna. Questa critica offre l'opportunità a Dante di chiedere, dopo avere espresso la sua felicità di averlo ritrovato in Paradiso, come possano perdersi le virtù di generazione in generazione. Carlo spiega che attraverso le sfere celesti si manifesta l'influenza di Dio che non si esaurisce nella formazione della natura di ogni uomo, ma comprende anche la vocazione che permette loro di meritarsi la vita eterna. Se così non fosse, non vi sarebbe ordine né perfezione nel movimento dei cieli e del primo motore, cosa che è impossibile, essendo opera diretta di Dio. Anche Dante ne è assolutamente convinto, come è convinto dell'affermazione seguente di Carlo, cioè che la condizione migliore per l'uomo sia nella vita civile. Ma, come scrive Aristotele, essa richiede la divisione dei compiti tra gli uomini, e per questo è bene che ognuno abbia una diversa attitudine. Per questo uno nasce con la vocazione politica di Solone, un altro condottiero come Serse, uno adatto al sacerdozio come il biblico Melchisedèc, e un altro inventore e architetto come Dedalo, che perse il figlio Icaro volando via dal labirinto di Cnosso. Queste vocazioni individuali sono distribuite senza tener conto del casato di appartenenza: per questo i gemelli Esaù e Giacobbe ebbero un'indole così diversa, e per questo Romolo Quirino fu grande, malgrado le origini umili del padre, tanto che la sua paternità si attribuisce tradizionalmente a Marte; altrimenti i figli sarebbero sempre simili ai genitori. Carlo conclude con un corollario interpretabile come una critica alla sua propria casata: come semi in un terreno non adatto, anche le capacità degli uomini non si sviluppano bene se sono forzati contro la loro inclinazione naturale: invece, accade che sia imposta la carriera ecclesiastica a uno nato per comandare (forse allude al fratello Luigi), mentre viene fatto re chi sarebbe più adatto a dire sermoni (forse allude al fratello Roberto); e così viene perduto il cammino naturale di ognuno verso la salvazione. |
15/07/2009 00:00:00 | Il VII Canto del Paradiso è un canto di indottrinamento teologico che al nostro gusto moderno può apparire pesante, ma possiamo trovare un punto di interesse nella considerazione che Dante si prefissava di dare, nella sua Commedia, una sorta di compendio della cultura scolastica della sua epoca che, da persona colta quale era, aveva raggiunto sintetizzando innumerevoli fonti, in un'epoca in cui l'accesso alla cultura era privilegio di pochissimi. Per questo Beatrice parla come se rivelasse delle verità inedite, mentre gli studiosi hanno ricostruito le fonti di Dante per questo canto in sant'Anselmo, oltre ai soliti sant'Agostino e san Tommaso. Ma tutto va valutato nell'ottica di divulgazione della conoscenza che Dante si prefissava; del resto, non mancherà di omaggiare tutti gli autori delle sue fonti più in alto nel Paradiso. Il canto si apre con il commiato cantato di Giustiniano e le altre anime mercuriali: "Osanna, santo Dio degli eserciti, che sovraillumini con il tuo splendore le fiamme felici di questi regni". Il canto in latino è impreziosito dalle due parole ebraiche in rima: "sabaoth" ("degli eserciti") e "malacoth" (che dovrebbe essere in realtà "mamlacoth", "dei regni"). Così cantando, Giustiniano, su cui si sommano le due luci di beato e imperatore, si volge a tempo, insieme alle altre anime, ognuna danzando e allontanandosi rapidamente. Vorrei far notare che, come le anime della Luna svanirono in dissolvenza, anche qui abbiamo un altro "effetto visivo" a cui noi siamo abituati dal cinema e dalla televisione, ma che Dante ha creato con la sola immaginazione! Dante è assalito da un dubbio, ma la reverenza che si impadronisce di lui al solo sentir pronunciare le sillabe del nome di Beatrice lo trattiene dal parlare. Ma Beatrice vede in Dio i dubbi di Dante ed inizia il suo indottrinamento: "Tu sei perplesso per l'accenno di Giustiniano a come una giusta punizione abbia meritato a sua volta una giusta punizione (il sacrificio di Cristo e la successiva distruzione del tempio di Gerusalemme da parte dei romani). Adamo, per non aver sopportato alcun limite impostogli per il suo bene, dannò, insieme a sé stesso, tutti i suoi discendenti, fino alla venuta del Cristo, in cui la natura umana si riunì in una sola persona con la natura divina. Così, la persona del Cristo era pura come Adamo prima del suo peccato, che lo fece allontanare da Dio. La pena della croce fu giusta perché inflitta alla natura umana del Cristo, ma fu anche un sacrilegio perché inflitta anche alla sua natura divina. Così, mentre apriva i cieli riappacificando Dio con la natura umana, fece tremare la terra per l'oltraggio perpetuato dai Giudei, che dunque furono giustamente puniti quando i romani distrussero il tempio di Gerusalemme, nell'anno 70 d.C. A questo punto, vedo che ti assilla un'altra questione, e cioè perché Dio abbia voluto che la nostra redenzione avvenisse proprio in questo modo. Poiché al riguardo esistono molte idee sbagliate, ti spiegherò: la bontà divina crea solo cose perfette e incorruttibili, e libere dalle influenze delle altre cose create in modo indiretto. Così è anche l'umana natura, e per questo l'amore di Dio più arde per lei. Ma il peccato originale rende la natura umana meno somigliante a Dio, e una volta diventata imperfetta, non può tornare alla perfezione originale se non attraverso l'opera di Dio o l'accettazione di una penitenza adeguata alla colpa. Ma poiché per l'uomo ormai imperfetto non era possibile un'umiliazione abbastanza profonda da compensare l'orgoglio che lo fece disubbidire, solo l'opera di Dio poteva salvarlo. E l'opera più adatta che Dio potesse fare, la migliore tra tutte quelle compiute tra il primo giorno della creazione e quello del giudizio universale, unì la sua infinita bontà con la sua infinita giustizia, sacrificando sé stesso, prendendo la natura umana nella persona del figlio, come atto di bontà, e sottomettendosi con la sua propria carne al martirio che permise il riscatto di tutti gli uomini, come atto di giustizia. Un ultimo punto devo ancora chiarirti: ti ho detto che tutte le cose create da Dio sono incorruttibili, ma tu vedi come i quattro elementi, l'acqua, il fuoco, l'aria e la terra, e tutti i loro composti, in realtà sono soggetti a corruzione; ed infatti, mentre gli angeli, l'empireo e tutti i cieli sono stati creati direttamente da Dio, e sono composti solo di 'quinta essenza' (che era associata alla forma del dodecaedro, mentre l'icosaedro era associato all'acqua, l'ottaedro all'aria, il tetraedro al fuoco ed il cubo - o esaedro - alla terra), tutti gli altri elementi sono creati a partire dalla materia della quinta essenza e dalla virtù formativa che manifesta la sua influenza attraverso le sfere celesti. Così tutti gli elementi composti, l'anima sensitiva degli animali e quella vegetativa delle piante risultano creati dalla potenzialità della materia che le stelle fanno esprimere; mentre invece l'anima umana deriva direttamente da Dio, che per questo la ama quanto essa è attratta da Lui. Da ciò puoi anche capire come anche il corpo umano sia destinato alla resurrezione della carne, poiché anche Adamo ed Eva, secondo le Scritture, furono creati direttamente da Dio". |
20/06/2009 00:00:00 | Il VI Canto del Paradiso è completamente dedicato (caso unico in tutta la Divina Commedia) al monologo di Giustiniano, che in pratica espone la visione di Dante dell'Impero Romano come funzionale alla tutela della Chiesa, avendo così modo di chiarire le sue critiche sia ai guelfi che ai ghibellini. Le fonti storiche a cui Dante attingeva non erano esatte in alcune parti, ma il quadro che risulta evidenzia come il destino di Giustiniano fosse voluto da Dio. Dice Giustiniano: Dopo che Costantino ebbe riportato a oriente (cioè a Costantinopoli) il sacro simbolo dell'aquila imperiale, che rappresenta il potere temporale concesso direttamente da Dio, vicino ai luoghi da cui un tempo si era mosso insieme ad Enea (che sposò Lavinia), qui esso rimase per più di duecento anni, finché non arrivò a me: sono Giustiniano, e sono stato l'imperatore che, per volere di Dio, riordinò la giurisprudenza romana. Prima di dedicarmi a quest'opera, credevo che in Cristo fosse presente solo la natura divina, e non quella umana (si tratta dell'eresia monofisita), ma il papa Agàpito mi convertì alla vera dottrina; e ciò che allora credetti per fede, ora posso comprenderlo così facilmente come tu puoi comprendere che due frasi contraddittorie sono necessariamente una vera e una falsa (da notare che questo esempio viene usato in supporto del dogma per cui la natura di Cristo sarebbe contemporaneamente sia umana che divina, il che appare essere una contraddizione). Dopo la mia conversione mi diedi al lavoro di riordinamento della legge, e lasciai al mio generale Belisario la responsabilità dell'esercito, che comandò così bene da far presupporre un'approvazione divina. Adesso sai chi sono, ma lascia che ti spieghi quanto sia in errore chi oggi vorrebbe appropriarsi del sacro segno imperiale (i ghibellini), e chi vorrebbe combatterlo (i guelfi, che propugnavano la supremazia temporale del papa). Questo sacro simbolo è degno di reverenza per la virtù di tutti gli uomini che combatterono per lui, a cominciare da Pallante, che fu ucciso da Turno e poi vendicato da Enea nella guerra d'Italia (con questo episodio, Dante ricollega l'inizio di questa epopea dell'aquila imperiale alla fine dell'Eneide). Dimorò in Alba fino allo scontro tra Oriazi e Curiazi, che sancì la supremazia di Roma; il suo dominio continuò a crescere dal ratto delle Sabine (sotto Romolo) al suicidio di Lucrezia disonorata (che sancì la fine del regno di Tarquinio il Superbo), e poi durante la repubblica, con le vittorie su Brenno (re dei Galli) e su Pirro (re dell'Epiro che aiutò i Tarentini), e quelle di Tito Manlio Torquato (sui Galli e i Latini), di Lucio Quinzio detto "Cincinnato" per i capelli ricciuti (sugli Equi), e poi dei tre Deci (sui Latini e i Sanniti) e dei trecento Fabi (caduti nella guerra di Veio), che volentieri onoro (ungo di mirra). Sempre sotto il sacro simbolo fu respinto Annibale quando passò le alpi lambite dal Po, e con esso trionfarono ancor giovani Scipione e Pompeo, mentre fu amaro per Fiesole (distrutta nella guerra contro Catilina). Poi, quando il cielo volle ricondurre tutto il mondo sotto un'unica pace, Cesare, per volere di Roma, prese in carico il sacro simbolo imperiale, prima vincendo in Gallia, tra i fiumi Varo, Reno, Isère, Loira, Senna e Rodano; e poi, una volta varcato il Rubicone, fu rapidissimo nel vincere in Spagna, a Durazzo (in Dalmazia), a Farsalo (in Tessaglia, contro Pompeo), e poi fino al Nilo (dove Pompeo fu ucciso); nella Troade rivide il porto di Antandro, da dove partì Enea, e il fiume Simoenta, presso cui giace il corpo di Ettore. Poi in Egitto detronizzò Tolomeo in favore di Cleopatra, si scagliò come una folgore su Giuba (re di Mauritania), per chiudere infine il suo giro proseguendo fino alla Spagna meridionale, dove sbaragliò le ultime armate di Pompeo. Le imprese del tutore successivo dell'insegna imperiale (Ottaviano) sono attestate nell'inferno da Bruto e Cassio, e da Modena e Perugia (saccheggiate da Antonio e Ottaviano); ne piange ancora Cleopatra, che dopo la morte di Antonio si suicidò facendosi mordere da un aspide. Il dominio di Roma si estese fino al mar Rosso, e il mondo conobbe un'epoca di pace tale che fu chiuso il tempio di Giano (che veniva lasciato aperto quando Roma era in guerra). Ma ciò non è niente in confronto a quello che il segno imperiale potè fare sotto il terzo imperatore (Tiberio): Dio gli concesse di compiere la giusta punizione del peccato originale (con la crocefissione di Cristo, che fu avallata da Pilato, rappresentante di Tiberio, e dunque, dal punto di vista giuridico, di tutta l'umanità, riunita sotto il segno di Roma Imperiale). Ti meraviglierai a sapere che poi, sotto Tito, lo stesso potere imperiale fece giustizia di quella stessa punizione (con la distruzione del tempio di Gerusalemme). Più tardi, questo stesso potere fu quello assunto da Carlo Magno quando difese la Chiesa romana dalla persecuzione dei longobardi. Adesso puoi giudicare quanto si sbaglino le due fazioni che originano tutti i vostri mali attuali: i guelfi oppongono al simbolo del potere imperiale quello dei gigli d'oro, e i ghibellini riducono lo stesso simbolo a rappresentare una fazione, ed è arduo giudicare chi sbaglia di più. Che i ghibellini usino un altro simbolo, e che i guelfi di Carlo II d'Angiò non credano che Dio possa trasmettere al loro simbolo l'autorità imperiale! Su questo piccolo pianeta (Mercurio), ti appaiono coloro che furono buoni per brama di onore e fama, e questo però ha limitato il loro amore per Dio. Ma la constatazione stessa della giusta ricompensa al nostro merito è parte della nostra letizia, e vediamo come i diversi ordini di beatitudine concorrano ad un'unico coro armonioso. Tra questi beati c'è anche Romeo di Villeneuve, gran siniscalco di Raimondo Berengario, conte di Provenza, che egli servì con amore ma poi fu ripagato con ingiustizia; ma di ciò non se ne giovarono i cortigiani malvagi che lo calunniarono, come tutti gli invidiosi che vedono un danno nei meriti degli altri. Il conte ebbe quattro figlie, e Romeo, che venne alla corte umilmente come pellegrino straniero, riuscì a darle tutte come mogli ad altrettanti re. Ma poi le malelingue calunniose indussero il conte a metterlo sotto inchiesta, malgrado gli avesse incremetato le rendite da dieci a dodici (sette e cinque). Così se ne ripartì, vecchio e solitario, povero come era arrivato, e se il mondo sapesse con quanta dignità affrontò la miseria dei suoi anni seguenti, lo loderebbe ancora di più di quanto già non faccia. In questa conclusione dimessa, si intravede un cenno autobiografico di Dante, costretto in esilio a chiedere ospitalità con dignitosa fermezza. |
05/06/2009 00:00:00 | Beatrice inizia il V canto del Paradiso spiegando a Dante che il suo splendore si accresce insieme alla perfezione della sua visione di Dio, che anche in Dante migliora mentre apprende, e che ora vorrebbe sapere da lei se un voto già fatto può essere sostituito senza commettere un peccato. Dagli incisi di Dante, qui e più avanti, come anche in chiusura, sembra quasi che Beatrice, e successivamente gli altri beati, si esprimano esattamente come lui trascrive, cioè in terzine... Prosegue Beatrice: il libero arbitrio è il dono maggiore che Dio ha riservato agli uomini e agli angeli, ed il voto si concretizza nell'offrire a Dio proprio questo dono; dunque non si può riprenderlo per modificare il voto già fatto, sarebbe come offrire in dono una cosa rubata. Però è vero che la Chiesa ha il potere di modificarlo, per cui Dante ascolti e ricordi bene, perché "non fa scienza, / sanza lo ritenere, avere inteso": oltre al patto, o convenzione, stipulato con Dio, il voto è caratterizzato da un oggetto che si offre, e questo può essere cambiato con altro oggetto materiale, purché lo si faccia attraverso l'autorità della Chiesa (la chiave bianca, o d'argento, e la chiave gialla, o d'oro, erano quelle possedute dall'angelo alla porta del Purgatorio, e rappresentano la facoltà della Chiesa di comprendere e perdonare i peccati), e purché il nuovo oggetto valga più del vecchio quanto il sei vale più del quattro: a conti fatti, deve valere una volta e mezza il vecchio oggetto; la proporzione riferita è assai più gravosa di quella riportata nel Levitico, che parla dell'aggiunta di un quinto, che corrisponde alla proporzione tra cinque e sei. Quindi, nel caso di un voto impegnativo, come quello di castità, obbedienza e povertà, non esiste contropartita che possa riscattarlo. Conclusione: "Non prendan li mortali il voto a ciancia"; ad esempio, il giudice Iefte di Galaad, per vincere la guerra contro gli Ammoniti, fece voto di sacrificare il primo che gli fosse venuto incontro al suo ritorno a casa, e per sua sciagura si trattò della sua unica figlia. Questo voto fu stolto, ed egli fu empio nell'osservarlo: avrebbe fatto meglio a chiedere il perdono a Dio per il suo errore. Ugualmente stolto ed empio fu Agamennone, che per la partenza verso Troia promise in sacrificio a Diana la cosa più bella del reame, che anche in questo caso risultò essere sua figlia Ifigenia, per cui piansero tutti coloro che sentirono la sua triste storia. Esorta Beatrice: Cristiani, siate più saggi! Seguite il vecchio e il nuovo testamento, e la guida del vostro pastore, senza fare voti impulsivi, o almeno fateli con consapevolezza, per non essere derisi dagli Ebrei, che per i voti seguono una precisa regolamentazione. Non fate come l'agnello che, per seguire il suo capriccio, finisce per recarsi danno da solo. Finita la sua esortazione, Beatrice rivolge lo sguardo verso il cielo, e riprende con Dante la salita veloce come una saetta, arrivando al cielo di Mercurio, anzi proprio dentro la luce di Mercurio stesso, che aumenta in virtù della luce di Beatrice, e Dante si emoziona ancora di più. Ed ecco, come pesci che affiorano attirati dal cibo sulla superficie di un lago pulito, più di mille anime appena visibili per la loro lucentezza, che accolgono Dante lieti di essere a disposizione della sua curiosità, che Dante trattiene a fatica: uno di loro si rivolge a lui e lo invita a chiedere, e Beatrice lo incoraggia ricordando che in ogni beato si esprime la verità divina. Così Dante chiede allo spirito che ha parlato chi egli sia, e perché sia qui nella sfera di Mercurio; l'anima si illumina quanto il sole che dissipa le nubi, e inizia il discorso riportato nel prossimo canto. |
18/05/2009 00:00:00 | Nel IV canto del Paradiso Beatrice chiarisce a Dante due dubbi che lo hanno colto dopo il colloquio con Piccarda. Inizialmente Dante non riesce a decidersi quale esporre per primo, e resta bloccato come un uomo tra due cibi ugualmente distanti e appetitosi, o un agnello tra due lupi famelici, o un cane da caccia tra due daini: ma Beatrice legge in lui come fece il profeta Daniele che indovinò e spiegò il sogno che perseguitava Nabuccodonosor, che irato, minacciava di morte tutti i sapienti della sua corte che non riuscivano a fare altrettanto; grazie alla sua preghiera, Daniele potè vedere che il sogno raffigurava una gigantesca statua di un uomo, che crollava a causa dei piedi fatti d'argilla, e spiegò che rappresentava l'impero Babilonese, il cui potere era instabile rispetto all'eterno regno di Dio. Questa figura è ripresa da Dante nel XIV canto dell'Inferno, quando parla del "veglio di Creta". I due dubbi di Dante sono questi: come possa essere giusto che i meriti di Piccarda e Costanza siano diminuiti a causa di una violenza che hanno patito, e se effettivamente le anime dei beati abbiano sede nei diversi cieli in cui ha iniziato ad incontrarli, cosa che pare dare ragione alla tesi di Platone per cui ogni anima risiedeva in una propria stella. Beatrice spiega prima la seconda questione, che è la più velenosa, in quanto potenzialmente eretica: l'angelo più vicino a Dio, Mosè, Samuele, Giovanni Battista e Giovanni Evangelista, e perfino Maria, risiedono tutti, in eterno, nello stesso cielo Empireo in cui risiedono anche i beati che Dante ha visto qui nel cielo della Luna: la differenza di condizione risiede tutta nella loro capacità di accogliere con maggiore o minore intensità l'amore di Dio. Il fatto di presentarsi a Dante in cieli differenti, è solo un modo per manifestare la loro condizione, perché gli uomini apprendono solo attraverso le esperienze sensibili. Per questo anche le scritture sono ricche di allegorie, in cui si attribuiscono aspetti umani a Dio e agli arcangeli Gabriele (che annunciò la gravidanza a Maria), Michele (che combattè contro Lucifero e gli angeli ribelli) e Raffaele (che fece guarire Tobia dalla cecità). Esplicitamente, Beatrice nega la tesi che Platone illustra nel Timeo, ossia che le anime esistano dall'eternità ed abbiano sede nelle stelle, da cui sono occasionalmente separate per vivere una o più vite terrene, e che siano destinate a tornare alla loro stella di origine; tuttavia, la tesi non sarebbe del tutto sbagliata, se Platone si riferisse solo alle influenze positive e negative che le stelle hanno sugli uomini; questo principio, male interpretato, è quello che ha ndotto a dare alle stelle i nomi degli dei. L'altro dubbio può far sembrare incomprensibile agli uomini la giustizia divina, che comunque va accettata per fede: ma in questo caso è anche possibile spiegarla. La violenza presuppone una resistenza da parte di chi la subisce, che non si piega come il fuoco, che dopo un colpo di vento torna sempre verso l'alto. Ma le anime del cielo della Luna si rassegnarono a subirla, al contrario di quanto fecero San Lorenzo che piuttosto affrontò il martirio su una graticola, e di Muzio Scevola, che per punire la sua mano del fallito attentato a Porsenna, la tenne su un braciere finché non fu completamente bruciata; ma questa forza di volontà non è da tutti. Beatrice anticipa allora a Dante un altro dubbio: potrebbe infatti sembrargli che quanto lei ha appena spiegato contraddica quanto Piccarda ha detto sulla fedeltà interiore che Costanza tenne al suo voto: è necessario distinguere tra la volontà assoluta e quella condizionata dagli eventi: ad esempio, Alcmeone, per vendicare il padre Anfiarao ucciso dalla moglie Erifile, si trovò dover essere empio verso la madre, per onorare la volontà del padre; ma quando la violenza subita si mescola alla volontà, allora ci si assume anche una parte di responsabilità: anche se la volontà assoluta non accondiscende, quella condizionata si piega, per timore di un danno maggiore. Piccarda si riferiva alla prima forma di volontà, Beatrice alla seconda, e per questo entrambe dicono il vero senza contraddirsi. Dante ringrazia per queste esaurienti spiegazioni, a tal punto gradite che teme di non essere capace di esprimere adeguatamente la sua gratitudine. Il nostro intelletto brama la verità come una fiera la propria tana, ma poi da ogni spiegazione germogliano altri dubbi in modo naturale: così adesso vorrebbe sapere se è possibile soddisfare ai voti non mantenuti con altri beni che non sembrino minori alla giustizia divina. Il compiacimento di Beatrice per questa domanda si manifesta con un tale sfolgorio d'amore che Dante non può sostenerne la vista, e quasi perduto, abbassa gli occhi verso terra. |
12/05/2009 00:00:00 | Dopo che Beatrice ha spiegato a Dante l'origine delle differenze di luminosità delle regioni della Luna e degli astri tra loro, nel III canto del Paradiso si racconta il primo incontro con le anime dei beati, che appaiono dai contorni lucenti ed indefiniti come le perle che all'epoca le donne portavano come ornamento sulla fronte. Al contrario di Narciso, che credette di vedere un'altra persona nella sua immagine specchiata nell'acqua, Dante si volta, credendo di vedere immagini riflesse di persone alle sue spalle; ma Beatrice gli spiega che si tratta di vere anime di beati, che però si trovano nel cielo più lontano da Dio perché non adempirono fino in fondo ai voti fatti in vita. Incoraggiato da Beatrice, Dante si rivolge allo spirito che sembra più ben disposto a parlargli, chiedendo chi sia e quale sia la sua storia. L'anima si fa riconoscere da Dante: è Piccarda Donati, sorella di Forese Donati, che Dante ha incontrato nel XXIV canto del Purgatorio, e di Corso Donati, che invece fu uno degli avversari principali di Dante, ed era un prepotente capo dei Guelfi di parte Nera. Dante si scusa di non averla riconosciuta subito, a causa della luce di beatitudine che risplende nei loro aspetti; e poi pone la domanda centrale di tutto il canto: cioè se i beati del cielo della Luna, che è il più lontano da Dio, non provino il desiderio di salire verso i cieli più alti. Piccarda e gli altri beati si scambiano un sorriso che testimonia la loro beatitudine, e poi lei spiega: la virtù di carità (che è il soggetto ricorrente di questo canto), è una condizione comune in tutto il Paradiso, ed è proprio ciò che appaga la volontà di ogni beato; e la carità, secondo la tradizione scolastica, è l'adeguamento della propria volontà alla volontà dell'oggetto amato; la pace corrisponde a questa identità di volere di ogni beato e di Dio. Dante comprende così come la beatitudine sia in ogni parte del Paradiso, anche se la grazia divina non è distribuita in modo uguale. Credo che potremmo farci un'immagine più adatta alla nostra mentalità moderna, se immaginiamo una spiaggia in cui i bambini piccoli giocano sulla riva, quelli più grandicelli nell'acqua più alta, ma sempre dove possono toccare facilmente il fondo, mentre gli adulti si divertono dove l'acqua è ancora più profonda: ognuno desidera di essere dove la profondità dell'acqua è adeguata alla sua capacità di nuotare e divertirsi. Dante ringrazia e le chiede ancora il motivo per cui lei non adempì ai suoi voti. Piccarda racconta come sin da giovane si rifugiò nell'ordine monacale fondato da Santa Chiara, per essere devota a Cristo, lo sposo che accetta ogni voto fatto da chi si conforma alla sua volontà attraverso la carità. E con poche parole sobrie cariche di compassione chiude il suo racconto: uomini avvezzi più al male che al bene, la rapirono dalla dolce vita monacale, e solo Iddio sa quale fu la sua vita seguente; noi sappiamo che fu il fratello Corso a farla rapire per costringerla ad un matrimonio di convenienza. Poi indica a Dante un'altra anima che le sta accanto, e che subì una sorte del tutto analoga: è l'imperatrice Costanza, già ricordata da suo nipote Manfredi nel III canto del Purgatorio, che secondo la tradizione fu tolta dal monastero per andare in moglie a Enrico VI di Svevia, e fu madre dell'imperatore Federico II. Storicamente non risulta aver mai preso i voti, ma con questi versi Dante rovescia una malevola leggenda guelfa in una attestazione di reverenza. Poi Piccarda e le altre anime iniziano a cantare "Ave Maria", che Dante spezza in due versi con un enjambement famosissimo, e svaniscono lentamente come sparisce un oggetto pesante che affonda in acque profonde. Dante vorrebbe chiedere qualcosa a Beatrice ma, riguardandola, i suoi occhi restano abbagliati dal suo splendore. |
06/05/2009 00:00:00 | Finalmente sono riuscito a recuperare il video dell'evento "Mare e poesia" che si è svolto a Viareggio, al Museo della Marineria, il 21 marzo scorso. Purtroppo l'acustica non era ottimale, ma questo è l'unico video disponibile. Potete vedere i due brani recitati da me, l'"Ulisse" di Dante e un brano da "Mediterraneo" di Montale, tra i primi video elencati nella pagina dedicata alla recitazione. |
04/05/2009 00:00:00 | Il secondo canto del Paradiso inizia con un ammonimento di Dante ai lettori che lo seguono "in piccioletta barca", ossia senza un'adeguata cultura per comprendere i temi metafisici che affronterà: tornate a più domestici lidi, perché in alto mare vi perdereste. Oltre ad Apollo e le Muse, anche Minerva, la dea della saggezza, lo guida in acque mai navigate prima. Chi per tempo assaggiò il "pan de li angeli", ossia la teologia, è bene che lo segua da vicino, senza perdere la scia del suo vascello, e potrà meravigliarsi più degli argonauti quando videro Giasone che, per la conquista del vello d'oro, nella Colchide riuscì ad aggiogare due indomabili buoi dalle corna di ferro e le zampe metalliche, che spiravano fuoco dalle narici, per poter seminare denti di serpente, da cui nascevano uomini armati. Dante riprende il racconto, narrando che lui e Beatrice salivano "veloci quasi come 'l ciel vedete", che si interpreta generalmente come "alla velocità con cui i cieli girano", oppure, come io preferisco, "alla velocità con cui lo sguardo si inoltra attraverso il cielo", che in chiave moderna sarebbe "alla velocità della luce". La terzina seguente, usando la figura retorica detta "hysteron-proteron", rende la velocità del lancio di una freccia dalla balestra usando un rovesciamento dei tempi: "un quadrel posa, / e vola, e dalla noce si dischiava" (ossia colpisce il bersaglio, vola, e si allontana dal punto in cui è fissato il grilletto). Anche se è un anacronismo supporre che Dante potesse immaginarlo, è suggestivo rilevare come questo effetto si verificherebbe se potessimo volare dietro alla freccia ad una velocità maggiore di quella della luce! Arrivano infine al cielo della Luna, dove Dante si meraviglia di come il suo corpo penetri all'interno del corpo della Luna, simile ad una nube densa che non impedisce la vista, come un raggio di sole attraverso una goccia d'acqua; nello stesso modo, osserva Dante, in Cristo si compenetrano due nature, quella umana e quella divina. Poi Dante pone a Beatrice una questione che sembra marginale, ma che permette di completare la descrizione metafisica dell'ordine del creato fatta nel primo canto: abbiamo visto come tutte le cose "per lo gran mar dell'essere" siano spinte nel luogo a loro stabilito, per tornare a quella unità in Dio che è il loro fine: ora vedremo come a partire dalla prima causa rappresentata da Dio, attraverso tutte le differenzazioni proprie di ogni cielo, si arrivi alla molteplicità di aspetti e di influenze che si manifestano nella natura. La tradizione popolare immaginava che le macchie scure visibili sulla Luna rappresentassero Caino in perpetuo esilio lassù, con un cespuglio di rovi sulle spalle; Dante, come già scrisse nel Convivio, pensa che siano dovute a zone di minore densità. Beatrice sorride e dà del fenomeno una spiegazione che la riconduce a una manifestazione di un principio universale, che sovrintende a tutte le influenze celesti. Prima fa una obiezione di carattere teologico: nell'ottava sfera sono presenti stelle più o meno luminose che hanno diverse influenze; se la differenza fosse data dalla densità, non si spiegherebbe come una sola caratteristica possa essere causa di tante influenze diverse. Poi fa una dissertazione di carattere più scientifico: se la Luna avesse zone meno dense, esse potrebbero essere di densità omogenea oppure con una zona interna più densa, come i muscoli nel grasso degli animali. Nel primo caso, queste zone dovrebbero essere trasparenti nelle eclissi di sole, ma ciò non risulta; nel secondo caso, si dovrebbe supporre che la zona più densa all'interno di quella meno densa rifletta meno la luce perché più arretrata rispetto a quelle dense in superficie; qui propone a Dante un vero e proprio esperimento di ottica: tra due specchi uguali, se ne ponga uno in mezzo, su una posizione più arretrata: si potrà constatare che la luce riflessa da esso è minore per la quantità, ma non per la sua luminosità, che dunque non dipende dalla posizione. Il vero motivo delle differenze di luminosità è una conseguenza dell'architettura generale del mondo: all'interno dell'astratto Empireo, in cui Dio risiede, gira il cielo nono o "primo mobile" che influenza con la propria virtù tutti i cieli sottostanti, attraverso il suo movimento rotatorio. Questa virtù si differenzia nel cielo ottavo delle stelle fisse, generando altre virtù che continuano a differenziarsi nei cieli sottostanti dei pianeti (tra cui anche il Sole e la Luna); ogni cielo è influenzato dal superiore, e influenza quello inferiore. Come l'anima dell'uomo manifesta le sue diverse caratteristiche in organi diversi del corpo, così l'intelligenza del creato si esprime nelle diverse virtù pur rimanendo unica, e traspare come la gioia attraverso gli occhi: ma in ogni virtù, essa risplende in modo diverso, causando le differenze di luminosità che si riconoscono tra le diverse stelle (e anche nelle zone chiare e scure della Luna). Per quanto ingenua ai nostri occhi moderni, la visione di Dante della conoscenza si può così riassumere: la ragione umana, poiché si basa sui sensi che possono ingannare, non è sufficiente a raggiungere la verità: essa va integrata con la visione divina del creato, che si ottiene con la grazia e la conoscenza della teologia; questa fu proprio la cosa che mancò ad Ulisse, quando nella sua fame di conoscenza si avventurò nel sacrilego viaggio concluso in vista del Purgatorio; questa è proprio la cosa che Dante ha la grazia di possedere, quando ci guida con il suo vascello in queste profonde acque metafisiche. |
23/04/2009 00:00:00 | È tempo di riprendere le mie Lecturae Dantis ed ascendere al più alto regno in compagnia di Dante e Beatrice. Il primo canto del Paradiso si apre con il prologo in cui Dante si augura di essere in grado di raccontare quel che ha visto nel cielo in cui risplende maggiormente la gloria di "colui che tutto move". La tradizionale invocazione alle muse, che ispirano la poesia di argomento umano, stavolta è diretta anche e soprattutto ad Apollo, che tutela la poesia di argomento divino; per questo Dante ha bisogno dell'aiuto di entrambe le cime del Parnaso, Cirra ed Elicona, dove risiedono rispettivamente Apollo e le muse. L'invocazione ad Apollo è particolarmente accesa: "entra nel mio petto ed ispirami con la stessa forza con cui hai scorticato Marsia". Marsia era un satiro che sfidò Apollo nell'arte di suonare il flauto, e che il re Mida giudicò vincitore; per vendicarsi, Apollo fece crescere al re le orecchie d'asino, e scuoiò senza pietà il vecchio satiro. In questo caso, Dante richiede di essere da lui ugualmente invasato, "tratto fuori da sé stesso" per meritare l'alloro, che premia i condottieri e i poeti, ormai vergognosamente poco ambito dagli uomini. Se non riuscisse, Dante spera almeno di dare un esempio che altri poeti possano seguire con migliori risultati. Segue una descrizione astronomica che ricorda come ci troviamo nell'equinozio di primavera, verso mezzogiorno: i quattro cerchi sono l'orizzonte, l'equatore, l'eclittica e il coluro equinoziale (che unisce i punti dei due equinozi con il polo nord e il polo sud celesti), e le tre croci sono le intersezioni dell'orizzonte con gli altri tre cerchi; il numero dei cerchi e delle croci richiama quello delle quattro virtù cardinali e delle tre virtù teologali. Beatrice si volge verso il sole e lo fissa più a lungo di quanto non facciano le aquile; e come un raggio di luce rimbalza su uno specchio, il suo atto invita Dante a fare lo stesso, e si accorge di poter fissare anche lui il sole molto più a lungo di quanto non sia possibile sulla Terra; così lo vede sfavillare come ferro incandescente, come se alla luce del giorno si fosse aggiunta quella di un altro sole. Poi guarda di nuovo Beatrice, e improvvisamente si sente come il pescatore Glauco che mangiò l'erba che lo rese immortale, e che poi gli dei accolsero tra le divinità marine. Dante dichiara che non è possibile descrivere a parole cosa si provi a superare la natura umana ("trasumanare"), e non sa dire se in quel momento egli fosse solo spirito o avesse ancora un corpo: ma vide la luce del cielo dilagare, moltiplicarsi di intensità, e sentì una musica celestiale, che accese il suo desiderio di conoscerne la causa. Beatrice, che vede in lui come egli stesso, anticipa la sua domanda: "ti confondi perché non ti sei accorto di non essere più in terra": la musica e la luce che sente sono quelle proprie della sfera del fuoco, che sta oltre la sfera dell'aria, che hanno già attraversato, e sotto il cielo della Luna, dove sono diretti. E quando Dante si chiede come possa volare, benevolmente Beatrice spiega che nell'ordine di tutto il creato, "per lo gran mar dell'essere", c'è un luogo a cui ogni cosa, animale o essere umano tende ad andare, se non è ostacolato; e gli uomini sono destinati al cielo più alto, l'Empireo, che sta immobile mentre sotto di lui gli altri cieli ruotano con velocità crescente; purché, nell'uso del libero arbitrio, essi stessi non perdano il loro percorso naturale, inseguendo falsi piaceri. Ma senza il peso di alcun peccato, sarebbe piuttosto stato meraviglioso se egli fosse rimasto a terra, come se una fiamma rimanesse schiacciata al suolo. |
03/04/2009 00:00:00 | L'evento "Mare e poesia" è stato un bel successo per tutti i partecipanti, ma devo dire di essere rimasto particolarmente lusingato dai complimenti ricevuti, al punto da pensare a qualche nuova occasione per esibirmi con le mie declamazioni. Anche mia mamma ha avuto un successo personale con la poesia di Isolde Kurtz che ha tradotto personalmente. Esiste un video dell'evento, di cui spero di venire presto in possesso, per condividere su questo sito almeno le parti che riguardano me e lei. Lunedì scorso sono stato omaggiato di un invito per lo spettacolo di Piero Pelù, che mi ha piacevolmente sorpreso perché, oltre a cantare le sue canzoni più famose e quelle dell'ultimo album "Fenomeni", praticamente per tutto il tempo si esibisce in un monologo simpatico e provocatorio che ha conquistato il suo affezionato pubblico. Come a teatro, per il primo tempo gli spettatori sono rimasti nei loro posti numerati; ma alla fine del secondo tempo, quando le canzoni sono diventate più serrate e dai ritmi incalzanti, i fan non hanno resistito e sono andati a scatenarsi sotto il palco. Bravo Piero, uno spettacolo vivo e divertente. Infine, vorrei rassicurare chi attende con impazienza che io prosegua la mia lettura della Divina Commedia: penso di iniziare il Paradiso nella prima o nella seconda settimana dopo Pasqua. |
18/03/2009 00:00:00 | Per chi fosse preoccupato per il protrarsi della mia assenza, eccomi con qualche novità. Sabato 21 Marzo, alle h16.00 parteciperò con altri attori e poeti ad una pubblica lettura di poesie sul tema del mare, che si terrà al museo della Marineria di Viareggio: "Mare e poesia", organizzata da Miliana Fruzza, presentata da Stefano Pasquinucci, con la partecipazione di quasi venti persone (consultate la locandina), tra cui anche mia mamma, che leggerà una poesia di Isolde Kurtz. Io leggerò l'"Ulisse" di Dante e un brano di Montale tratto da "Mediterraneo". Per chi ne avesse bisogno, al sito del museo è disponibile una mappa topografica. Per gli altri miei impegni in sospeso su questo sito, sappiate che il mio piano è quello di riorganizzarlo, prima di attaccare la recitazione del Paradiso, in modo che i commenti ai canti stiano insieme ai file audio; inoltre sto facendo tradurre in inglese le pagine della terza ipotesi, mentre è in atto la mia ennesima e spero definitiva riscrittura della "versione completa" per una sua possibile pubblicazione cartacea. |
12/02/2009 00:00:00 | Quanto si era chiuso in modo crudo il canto precedente, tanto il XXXIII canto del Purgatorio si apre liricamente, con una citazione del salmo 78 (o 79 nella numerazione ebraica) della lamentazione per la distruzione del tempio di Gerusalemme da parte dei Babilonesi, cantato dalle sette grazie, mentre Beatrice si addolora poco meno di Maria ai piedi della croce. Poi si alza e pronuncia un'altra citazione biblica, dal vangelo di Giovanni, usando le parole con cui Gesù annunciò ai discepoli la sua prossima morte e la sua successiva resurrezione: "Un poco, e non mi vedrete; un altro poco, e mi vedrete di nuovo"; In questo caso, Beatrice si riferisce alla Chiesa, simboleggiata dal carro che alla fine del canto precedente si è trasformato in un mostro ed è stato portato via dal feroce gigante, insieme alla prostituta che lo sormontava. Beatrice riprende il cammino, seguita dalle grazie, Matelda, Dante e Stazio, ed invita Dante a starle accanto e a non indugiare a interrogarla. Dante è ancora un po' intimidito, così lei comincia a spiegargli come la Chiesa, oggi governata dalla corrotta curia romana ed assoggettata alla monarchia francese, sarà presto risanata da un prossimo imperatore che ristabilità la divisione tra potere spirituale e potere temporale; questo personaggio richiama il "veltro" che Virgilio nominò in apertura dell'Inferno, e che viene generalmente identificato con Arrigo VII, su cui Dante nutriva molte speranze; il fatto che Beatrice si riferisca a lui come un "cinquecento diece e cinque" non è chiaro, ma si può notare che il numero romano "DXV" è l'anagramma di "DVX", ossia imperatore. Beatrice continua assicurando Dante che, anche se le sue parole sembrano oscure come gli enigmi della Sfinge, il famoso mostro tebano sconfitto da Edipo, o i responsi sibillini di Temi, che presiedeva all'oracolo di Delfi, e che per vendicare la Sfinge, scatenò una volpe famelica che devastò i campi e il bestiame della Beozia, tra poco tempo le parole di Beatrice saranno chiarite dai fatti stessi, che avranno il ruolo di "Naiadi", e qui probabilmente Dante, rifacendosi alle Metamorfosi di Ovidio, equivoca "Naiadi" con "Laiade", cioè Edipo, figlio di Laio; Beatrice invita Dante a ricordare le sue parole, almeno sommariamente, come monito per i vivi, e gli chiede di riferire come abbia visto mal ridotta la pianta di Dio, per cui Adamo fu dannato ed aspettò per cinquemila anni la venuta di Cristo, che lo perdonò; e Dante capirebbe perché essa sia così alta, e perché si apra verso l'alto, se la sua mente non fosse incrostata da pensieri inutili, come se fosse bagnata dalle acque calcaree dell'Elsa, ed il piacere che egli ne ricava non velasse la sua conoscenza come il sangue di Piramo tinse il frutto del gelso, che Dante ha già citato nel XXVII canto. Dante promette che riporterà fedelmentele sue parole, ma chiede perché a volte gli appaiano così difficili da comprendere. Beatrice spiega che la conoscenza dottrinale di Dante si discosta dalla conoscenza divina quanto la Terra dal cielo più alto, che gira più velocemente. Per comprendere i nuovi insegnamenti, la ragione e il sapere non bastano più, e simbolicamente si sono fermati insieme a Virgilio; le verità della Teologia, simboleggiata da Beatrice, sono accessibili solo tramite un'esperienza vissuta in prima persona, a cui si accede solo tramite la grazia divina. Dante non ricorda di essersi mai allontanato dai consigi di Beatrice, e lei sorride, ricordandogli che ha bevuto l'acqua del Lete, che cancella la memoria dei peccati, e dunque, il fatto che lo abbia dimenticato testimonia che il suo allontanarsi da lei fu un peccato; ma per farsi capire da lui, parlerà in seguito in modo più esplicito. Nel frattempo, si è fatto mezzogiorno e sono giunti ad una doppia sorgente, simile a quella del Tigri e dell'Eufrate, e Dante chiede che fonte sia. Beatrice per la prima volta nomina Matelda, invitandola a spiegarglielo; lei precisa che veramente glielo ha già detto, come in effetti ha fatto alla fine del XXVIII canto; comunque, Beatrice la prega di ripeterlo, mentre lo conduce all'Eunoè, che ravviva la memoria delle buone azioni commesse, e Matelda accetta volentieri, invitando anche Stazio a seguirla. A questo punto, Dante si vorrebbe dilungare raccontando del dolce sapore dell'acqua dell'Eunoè; ma si scusa, perché lo spazio predisposto per il canto, e per tutta la cantica del Purgatorio, è finito; e così conclude raccontando che ritornò dalla fonte rinnovato come le piante ad ogni primavera, purificato e pronto a salire verso le stelle. |
05/02/2009 00:00:00 | Il XXXII canto del Purgatorio è il canto più lungo di tutta la Divina Commedia, e senz'altro anche uno dei più complessi, con molti simbolismi ancora oggetto di dibattito. Il canto si schiude con il sorriso di Beatrice, che finalmente si rivela dopo due canti piuttosto severi; Dante, che non ha più visto il suo sorriso da quando lei era in vita, ormai dieci anni prima, si perde in quello fino a che non lo richiamano le tre virtù teologali, con un misto di rimprovero ma anche di cura, poiché infatti Dante resta abbagliato per alcuni secondi. Poi vede il corteo ricominciare a muoversi tornando indietro, verso il sole del mattino, con le grazie allineate alle due ruote, ed il grifone che muove il carro senza alcuno scossone. Dante si accoda alla ruota destra, insieme a Matelda e a Stazio, che evidentemente ha già passato anche lui il Lete; e proseguono nella selva, disabitata per colpa di Eva, accompagnati da un coro angelico. Dopo lo spazio che potrebbero coprire tre frecce successive, Beatrice scende dal carro mentre tutti mormorano "Adamo" e si dispongono intorno ad un albero spoglio, ma con i rami che si dilatano sempre di più mentre salgono verso l'alto, così alto che anche in India, dove si trovano alberi molto grandi, susciterebbe ammirazione. È il famoso albero del bene e del male, a modello del quale sono fatti anche gli alberi già incontrati sulla cornice dei golosi. Tutti gridano al grifone: "Beato te, che non cogli niente da questo albero che sembra dolce, ma fa stare male chi ne assaggia"; e il grifone parla: "Così si conserva il fondamento della giustizia"; poi prende il timone del carro che ha trainato fino a lì, e lo lega all'albero con un ramo dell'albero stesso. In pochi istanti, come fioriscono le nostre piante prima che il sole esca dalla costellazione dell'Ariete, in cui entra dopo quella dei Pesci, così i rami si coprirono di fiori dai colori compresi tra quello della rosa e quello delle viole. Allora si leva un canto che tra noi non è conosciuto, e che Dante non riesce a comprendere; e senza accorgersene, si addormenta, come Argo, il mostro dai cento occhi che faceva la guardia a Io, fu addormentato da Mercurio, che poi lo uccise, raccontandogli la storia della ninfa Siringa e di Pan che voleva sedurla; ma nessuno può descrivere come ci si addormenta, così Dante riprende da quando Matelda lo sveglia con le stesse parole "Alzati: che fai?" che si sentirono rivolgere da Gesù gli apostoli Pietro, Giovanni e Giacomo, che lo avevano seguito sul monte Tabor, dove fece loro intravedere la vita celeste, e assistere al suo dialogo con Mosè e il profeta Elia, circondati da una nube di luce; le stesse parole che Gesù pronunciò per risuscitare Lazzaro e la figlia di Giairo. Il grifone, il corteo di anziani e i quattro animali che erano ai lati del carro se ne sono volati in cielo cantando cori dolci e profondi; Stazio non è nominato, ma sapremo in seguito che si trova ancora con Dante; Beatrice è rimasta seduta alle radici dell'albero, circondata dalle sette virtù, che reggono i candelabri che non possono essere spenti da alcun vento. Lei gli annuncia che tra poco potranno ascendere all'eterna città di Cristo, ma prima è bene che Dante assista a ciò che ora avverrà, per scriverne una volta tornato alla vita terrena. In questi versi, Beatrice sancisce ufficialmente la funzione di indottrinamento che Dante intendeva adempiere scrivendo la Divina Commedia. Obbedendo a lei, Dante volge la sua attenzione al carro, rimasto legato all'albero del bene e del male. Ciò che segue è una visione allegorica della storia della Chiesa cristiana, che il carro simboleggia, e ricorda i versi del XIX canto dell'Inferno, dove ugualmente si biasima la corruzione della Chiesa romana. L'albero a cui il carro è legato, rappresenta la legge divina che Adamo ed Eva trasgredirono, mangiando il frutto proibito. Rapida come un fulmine, piomba dal cielo un'aquila, simbolo del potere di Roma, che spezza i rami fioriti dell'albero e fa oscillare il carro come una nave in tempesta, simboleggiando le persecuzioni subite dai primi cristiani; poi appare una volpe magra e veloce, che tenta di annidarsi sotto il carro, ma viene cacciata da Beatrice, che rappresenta la teologia che smaschera le eresie; torna di nuovo l'aquila, ma questa volta lascia sul carro alcune penne, e dal cielo si ode la voce di San Pietro: "O navicella mia, come sei caricata male!", che è sconsolato nel vedere la sua Chiesa corrotta dal possesso di beni terreni che tradizionalmente iniziano con la donazione di Costantino, anche se Dante riconosce che le sue intenzioni erano benevole. Da sotto il carro, si apre una voragine da cui esce un drago, che colpisce il carro con la sua coda e poi si dilegua serpeggiando nella selva; esso rappresenta gli scismi che hanno indebolito la Chiesa. Dopo di ciò, come gramigna in un campo fertile, le piume lasciate dall'aquila si moltiplicano fino a ricoprire tutto il carro, come la corruzione si propagò nella Chiesa, e dal timone spuntano tre teste con due corna, mentre dai quattro angoli del carro ne sbucarono altre quattro con un solo corno; le sette teste simboleggiano i sette vizi capitali, ed insieme alle dieci corna richiamano la bestia dell'Apocalisse. Infine sul carro-mostro appare una meretrice seduta che rappresenta la curia romana, che adocchia avidamente intorno; mentre accanto a lei appare un gigante che la controlla, che rappresenta il re di Francia, probabilmente Filippo il Bello, a cui il papato fu sottomesso; essi si baciano lascivamente, ma lei lancia un'occhiata maliziosa a Dante, e allora il gigante, indispettito, la colpisce crudelmente, con allusione all'umiliazione dello schiaffo di Anagni, che Bonifacio VIII subì nel 1303, e dunque qui ha il ruolo di una premonizione, come la successiva fuga dei due personaggi con il carro-mostro sciolto dall'albero, che allude alla cattività avignonese, che iniziò con Clemente V nel 1309; e Dante li segue con gli occhi finché non spariscono in mezzo alla selva. |
28/01/2009 00:00:00 | "O tu che se' di là dal fiume sacro" è l'incipit del XXXI canto del Purgatorio, dove Beatrice si rivolge direttamente a Dante, seguitando senza pause l'arringa che fino ad ora era rivolta agli angeli, ed invitandolo a confermare le sue accuse. Dante è così confuso che non riesce a parlare; allora lei incalza, poiché la memoria dei suoi peccati non è stata ancora cancellata dall'acqua del fiume Lete che scorre in mezzo a loro. Dante riesce appena ad accennare un "sì" che non si sarebbe inteso senza vedergli la bocca; e come una balestra rotta dalla troppa tensione, scoppia a piangere, vergognoso e pentito. Beatrice continua: "Mentre durava ancora il tuo amore per me, che ti guidava al miglior bene che si possa desiderare, quali fossati o quali catene ti sbarrarono il passo, da farti perdere la speranza di procedere? Quali vantaggi vedesti negli altri beni, che ti indurono a corteggiarli?". Notevoli, in questi versi, le rime che richiamano esplicitamente il dialogo con Francesca nel V canto dell'Inferno. Piangendo, Dante confessa le sue debolezze: "Quando non ci fu più il tuo viso a guidarmi, seguii le cose che rimasero presenti, con i loro falsi piaceri." Sarebbe inutile nascondere a Dio le proprie colpe, perché già le conosce; ma la sua giustizia si stempera con la confessione. Ma la morte di Beatrice avrebbe dovuto insegnare a Dante come tutte le bellezze mortali siano effimere, e indurlo a perseguire solo le bellezze celesti. Un uccellino appena nato è senza esperienza, ma per quelli cresciuti, si tendono invano le reti e si tirano a vuoto le frecce. Dante ascolta con la testa bassa, e Beatrice lo invita ad alzare "la barba", cioè il mento di un uomo già maturo, e che quindi dovrebbe avere più senno. Dante lo alza con più fatica di quanta sia necessaria alla tramontana o al "vento di Iarba" (che fu il re dei Getuli respinto da Didone, e quindi si tratta del vento di libeccio), per sradicare una quercia; guarda verso Beatrice, e vede che gli angeli hanno smesso di gettare i fiori, così che può distinguere il suo volto, fisso sul grifone fermo davanti al carro. Ancora velata e di là dal fiume, gli sembra più bella di com'era in vita, come quando era viva pareva più bella delle altre donne; il pentimento diventa così forte, da fargli odiare le cose che più amò quando ella gli venne a mancare; e il rimorso è tale da fargli perdere i sensi. Dante si risveglia immerso fino alla gola nel fiume Lete, sostenuto da Matelda che invece resta in superficie leggera come una barchetta, e lo avvicina all'altra riva, mentre Dante sente cantare il salmo 50 (o 51 nella numerazione ebraica), il "Miserere", nel quale si ringrazia Dio per l'aspersione e il lavacro che rende mondi dai peccati, con un coro così dolce che non riuscirebbe a descriverlo. Matelda lo immerge completamente sott'acqua, in modo che Dante beva l'acqua del Lete, che permette di dimenticare i peccati commessi; poi lo trae a riva, dove lo consegna alle quattro danzatrici che rappresentano le virtù cardinali che si acquistano attraverso il battesimo, e sono al servizio della Verità Rivelata, rappresentata da Beatrice. Esse lo circondano cantando, e lo portano davanti al grifone; da qui, Dante può vedere la bellezza degli occhi di Beatrice, verdi come lo smeraldo, nei quali si riflette l'immagine del grifone che ella sta fissando; ed è sorpreso nel vedere come l'immagine si trasformi continuamente in leone e in aquila, mentre il grifone mostra entrambe le nature mescolate. Poi viene circondato dalle tre danzatrici che rappresentano le virtù teologali, che invitano Beatrice a rivolgere il suo sguardo a Dante, e di permettergli di vedere la sua bocca, ancora velata. Dante la guarda di nuovo, ed il canto finisce con una sublime invocazione: O splendore di viva luce eterna, qual è il poeta che fu così ispirato dalla sua arte, da non sembrare del tutto confuso, tentando di rendere la tua bellezza, come apparve nel cielo che la imitava armoniosamente, quando ti rivelasti nell'aria aperta? |
21/01/2009 00:00:00 | Il XXX canto del Purgatorio è uno dei più importanti della Divina Commedia, perché Virgilio silenziosamente sparisce ed appare Beatrice, che guiderà Dante per il Paradiso. Quando si fermano le sette candele che rappresentano i doni dello Spirito Santo, e che guidano il corteo come la costellazione della stella polare guida i naviganti, tutti si rivolgono verso il carro, e uno dei vecchi, che rappresenta il libro della Bibbia attribuito a Salomone, cita l'invocazione dello sposo nel Cantico dei Cantici: "Vieni dal Libano, o mia sposa...", che tradizionalmente è interpretata come la Chiesa Cristiana. Alla sua voce, con lo stesso impeto che avranno i beati quando i loro corpi risorgeranno nel giorno del Giudizio, dal carro si levano cento angeli, cantando "Benedetto colui che viene!", come fu salutato Gesù al suo ingresso a Gerusalemme, e "gettate gigli a piene mani!", citazione dall'Eneide per la celebrazione di Claudio Marcello, promettente nipote di Augusto, purtroppo destinato a una morte prematura. Si preannuncia un arrivo importante, ed infatti Dante prosegue ricordando come il sole a volte sorga nel cielo sereno, temperato appena dalle nuvole, che così permettono di ammirarlo a lungo: allo stesso modo, dentro una nuvola di fiori, appare una donna cinta, con rami d'olivo, di un velo bianco (la fede), con un manto verde (la speranza), sopra il vestito rosso (la carità). Malgrado gli anni trascorsi, Dante intuisce di chi si tratta, e ancor prima di riconoscerla con la vista, è scosso dalla stessa emozione che provò la prima volta che vide Beatrice, ancora bambino. Travolto dall'emozione, cerca Virgilio per dirgli: "Conosco i segni dell'antica fiamma", come nell'Eneide dice Didone: ma Virgilio se n'è andato, ci ha privati della sua presenza. Còlto dallo smarrimento, Dante piange, nonostante tutte le bellezze del Paradiso Terrestre; ma Beatrice lo rimprovera, chiamandolo per nome, che risuona qui per l'unica volta in tutta la Divina Commedia: "Dante, non piangere per Virgilio, perché hai ben altri motivi per farlo". La sua autorità traspare anche dal velo che ancora porta, e continua: "Guardami bene! Sì, sono Beatrice. Come hai pensato di essere degno di salire fino a qui, non sapevi che qui gli uomini sono felici?" (mentre invece Dante sta piangendo). Dante abbassa gli occhi, si specchia nel fiume e subito li fissa nell'erba davanti ai suoi piedi, tanta è la vergogna provata guardandosi. Allora gli angeli cantano il coro del salmo 30 (31 nella numerazione ebraica): "In te, Domine, speravi..." fino a "pedes meos", in cui si canta la fiducia nella protezione d Dio, che guida i nostri passi, come ha guidato il pellegrino Dante, che interpreta il coro come un'intercessione in suo favore; e come i ghiacci dell'Italia stretta dai venti del nord (della Schiavonia) si sciolgono come cera quando soffia il vento del sud (dove le ombre si accorciano), così si scioglie in un nuovo pianto anche la commozione di Dante. Ma Beatrice continua: "Anche se voi angeli sapete ogni cosa terrena, le mie parole devono rendere il suo dolore uguale alla sua colpa: egli è nato con grandi doti, sia per le sue stelle, che per la grazia imperscrutabile del cielo, e poteva avere successo in ogni campo; ma come il terreno fertile, se non è coltivato, si riempie di erbacce, così anche lui, finché ho potuto guidarlo ha seguito 'la diritta via', ma quando passai a miglior vita, invece di amarmi di più, si perse seguendo false illusioni, senza badare alle ispirazioni con le quali lo richiamavo nei sogni. Così l'unica via è stata quella di fargli visitare il regno dei morti, e per questo, piangendo, ho chiesto aiuto a Virgilio, che l'ha condotto fino a qui. Non sarebbe fatta la giustizia di Dio, se ora passasse il Lete senza piangere di pentimento". |
15/01/2009 00:00:00 | Il XXIX canto del Purgatorio inizia con Matelda che ha finito di parlare e ricomincia a cantare il salmo 30 (31 secondo la numerazione ebraica): "Beati coloro i cui peccati sono perdonati", e si incammina verso la sorgente del fiume, mentre Dante la segue adeguandosi al suo passo. Poco più oltre, il corso d'acqua che li separa si volge di nuovo verso est e poco dopo Matelda richiama l'attenzione di Dante: in quel momento, la foresta si illumina come per un lampo, che però non svanisce e continua a splendere; e si ode una melodia che si avvicina. Dante rimpiange che la disobbedienza d'Eva abbia tolto agli uomini il godimento di quelle bellezze; poi vede che la luce viene da dentro il bosco, mentre inizia a distinguere un canto. Dopo aver invocato l'aiuto delle Muse, che risiedono sul Parnaso e la vicina vetta Elicona, e in particolare alla musa Urania, ispiratrice della poesia soprannaturale, Dante racconta che gli parve di vedere in lontananza sette alberi d'oro; ma quando fu abbastanza vicino, riconobbe che erano candelabri, mentre intese che le voci cantavano "Osanna". L'insieme dei candelabri fiammeggiava maestosamente;essi simboleggiano i sette doni dello Spirito Santo: sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, scienza, pietà, timor di Dio. Dante, ammirato, si volge a Virgilio, che gli risponde con uno sguardo non meno stupito. I candelabri avanzano più lenti di quanto facciano le spose nei cortei nunziali; e Matelda invita Dante a guardare meglio cosa li segue. Dante vede un corteo di persone vestite di bianco, e si accosta alla riva del fiume per vedere meglio. Le fiamme dei candelabri lasciano delle scie in cielo con i colori dell'arcobaleno, che sono gli stessi che appaiono anche nell'alone della Luna, che Dante chiama "Delia", che sta per "Diana", che è la dea che tradizionalmente le è associata. Continua a raccontare che sotto un così bel cielo venivano dodici coppie di vecchi coronati di fiordalisi, inneggianti a Maria, che rappresentano i ventiquattro libri dell'Antico Testamento. Li seguono quattro animali, ognuno con sei ali piene di occhi, vigili come erano gli occhi di Argo, il guardiano della ninfa Io, che fu ucciso da Mercurio; essi rappresentano i quattro Vangeli, e Dante, scusandosi di non poterli descrivere dettagliatamente, rimanda al libro di Ezechiele e all'Apocalisse di Giovanni.(da cui ha preso il numero delle sei ali), dove sono citati; si tratta degli animali che simboleggiano i quattro evangelisti: in realtà, il simbolo di Matteo è un angelo dalla parvenza umana; quello di Luca è un bue, un leone per San Marco e un'aquila per San Giovanni. In mezzo a loro, avanza un carro a due ruote, trainato da un grifone con le ali altissime, che separano nel cielo la scia centrale dalle tre a destra e dalle tre a sinistra. Le ali e la testa sono dorate, il corpo e le zampe sono bianche e miste di rosso; rappresenta la doppia natura di Cristo, divina ed umana, mentre il carro rappresenta la Chiesa romana, ed è più bello di quello su cui trionfarono Scipione l'Africano e Cesare Augusto, ed anche dello stesso carro del Sole, che Giove bruciò, per le implorazioni della Terra, ustionata dal maldestro Fetonte, figlio di Elio (il Sole), che aveva voluto guidarlo. Sul lato destro, danzano tre donne che rappresentano le tre virtù teologali: una rossa, che rappresenta la Pietà, una verde, la Speranza, e una bianca, la Fede. A sinistra, altre quattro donne rappresentano le quattro virù cardinali: Giustizia, Fortezza, Temperanza e Prudenza, che ha tre occhi per i suoi tre requisiti: buona memoria del passato, buona conoscenza del presente, e buona previdenza per il futuro. A chiudere il corteo, altri sette vecchi: la prima coppia è composta da uno vestito da medico, come Ippocrate che la natura creò per il bene degli uomini, e che rappresenta gli Atti di San Luca; l'altro è armato di spada, e rappresenta le epistole di San Paolo; i quattro che seguono rappresentano i libri delle Epistole dei santi Pietro, Giovanni, Giacomo e Giuda. Chiude il corteo un vecchio che pare dormire, assorto nelle sue penetranti visioni, che rappresenta il libro dell'Apocalisse di Giovanni. Anche questi sono vestiti di bianco come gli altri vecchi, ma in capo hanno corone di rose e fiori rossi. Quando il carro arriva nel punto più vicino a Dante, si ode un gran tuono, e tutta la processione si ferma come ad un comando perentorio. |
09/01/2009 00:00:00 | Buon anno a tutti e buon rientro dalle vacanze! Nel frattempo ho fatto qualche piccola correzione alle pagine della terza ipotesi, che ora lascerò un po' a riposo; adesso devo concludere il pellegrinaggio purgatoriale di Dante, che abbiamo lasciato l'anno scorso alle soglie del Paradiso terrestre. In questo XXVIII canto egli si incammina nel boschetto profumato alla luce del mattino, dove una lieve brezza spira da oriente, facendo frusciare le piante, come se accompagnassero il canto degli uccellini che le popolano, e che a Dante ricorda la pineta di Classe, che aveva già avuto modo di vedere e dove tornerà al termine del suo esilio. Seguito dai due poeti che lo osservano silenziosi, egli si inoltra fino alla riva di un piccolo fiume che gli sbarra il cammino; le sue acque sono limpidissime, per quanto scorrano all'ombra del bosco. Alza lo sguardo tra i rami fioriti che sono oltre il fiume, e vede una giovane donna che canta e raccoglie i fiori che riempiono il prato. È esattamente la stessa immagine di Lia che Dante ha sognato nella notte, e che rappresenta la gioia della vita attiva; solo più tardi nel poema sapremo che il nome di questa bella donna è Matelda. Dante, che vede nella sua radiosità il segno dell'amore che la pervade, la prega di avvicinarsi, perché possa intendere le parole del suo canto. La sua bellezza gli ricorda Proserpina, quando fu rapita da Plutone, che la sottrasse alla madre Cerere mentre raccoglieva i fiori, causando così l'alternarsi delle stagioni in luogo della primavera perenne che esisteva fino a quel momento. Con la grazia di una ballerina che si muove a piccoli passi, Matelda si avvicina tra i fiori rossi e gialli, tenendo gli occhi bassi come per pudore, continuando a cantare così che Dante inizia a capire le parole del suo canto. Giunta vicino alla riva, alza lo sguardo verso Dante, che rimane colpito dalla sua luminosità, maggiore di quella che ebbero gli occhi di Venere, quando fu trafitta per errore dalla punta di una freccia del figlio Cupido, che causò il suo famoso amore per il pastore Adone. Matelda sorride e continua ad intrecciare i fiori in piedi sulla riva opposta del fiume, largo tre passi; Dante lo paragona all'Ellesponto, dove Serse fu sconfitto dai greci, diventando così un simbolo di orgoglio punito, e che Lenadro, per amare la bella Ero, attraversava a nuoto tutte le notti, tra Abìdo e Sesto, e che per questo odiava quel braccio di mare che li separava. Matelda spiega ai visitatori che la sua gioia può essere compresa ricordando il salmo che dice "Delectasti...". Si tratta del Salmo 91 (92 secondo la numerazione ebraica), il canto per il giorno del sabato: "Poiché mi rallegri, Signore, con le tue meraviglie, esulto per l'opera delle tue mani". Poi invita Dante, se vuole, a chiedere altro: ed egli domanda la ragione dello scorrere dell'acqua e del vento, dato che, in base a quanto gli ha detto Stazio nel XXI canto, il Purgatorio non è influenzato dagli stessi fenomeni atmosferici della Terra. Matelda conferma che il Paradiso terrestre è stato creato da Dio in modo che l'uomo, finché lo ha abitato, non fosse soggetto alle intemperie; perciò la brezza non è originata dalle differenze di temperatura, ma dalla rotazione del primo cielo che è appena sopra la cima del monte; ed aggiunge che, grazie ad essa, l'aria si impregna dei semi e dei pollini delle piante del Paradiso terrestre, che ricadono poi nell'atmosfera della Terra, generando tutte le specie vegetali, e spiegando così come a volte accada che nascano piante anche in terreni deserti. Anche l'acqua del fiume viene da una fonte non alimentata dalla condensazione del vapore, ma dalla volontà di Dio, e da essa nascono due fiumi: questo è il Lete, che permette di dimenticare i propri peccati, e l'altro è l'Eunoè, che permette di ricordare le buone azioni; in essi non scorre acqua, ma nèttare. È il caso di notare che questo fiume "Eunoè" non sembra essere nominato in alcuna opera letteraria precedente. Matelda aggiunge ancora che forse, gli antichi poeti che cantarono l'età dell'oro, ebbero ispirazione da un ancestrale ricordo di questo luogo. Dante si volta verso i due poeti che lo seguono, ed entrambi sorridono compiaciuti. Poi si volta di nuovo verso Matelda. |
18/12/2008 00:00:00 | Ho completato l'ennesima revisione delle pagine dedicate alla terza ipotesi. Spero che questa edizione sia sufficientemente chiara e coincisa. La versione in formato PDF è cresciuta fino a 35 pagine, perché ho preferito usare un font più grande ed ho aggiunto un sommario nell'ultima pagina. Ringrazio la mia carissima amica Adina che ha segnalato questo lavoro a molti suoi conoscenti, con l'entusiasmo che la contraddistingue. Ritengo importante sottolineare che non sono un fanatico esaltato, ma una persona che cerca di ragionare in modo razionale anche sui problemi metafisici, perché giudico tutte le proposte esistenti più o meno lacunose; alla fine, ho avuto la fortuna di rielaborare in modo nuovo idee antiche, che si ritrovano sia nelle filosofie occidentali che in quelle orientali, giungendo però ad una sintesi originale, su cui certamente non mi illudo di poter fornire dimostrazioni definitive, ma almeno posso esporre i motivi per cui la giudico un'ipotesi migliore delle altre, tanto da risultare utile anche qualora fosse del tutto sbagliata. Anche se non avete intenzione di cambiare le vostre opinioni personali, vi garantisco che vale la pena di conoscerla. |
16/12/2008 00:00:00 | Quando a Gerusalemme sorge il sole, in Spagna è mezzanotte, e in India è mezzogiorno, sulla montagna del Purgatorio si fa sera, all'inizio di questo XXVII canto, e appare ai tre pellegrini l'angelo della castità che canta "Beati i puri di cuore" (perché vedranno Dio). Ma aggiunge che, per proseguire, è necessario passare attraverso il fuoco purificatore, seguendo il canto che farà da guida. A tali parole, Dante impallidisce come un morto, e si rannicchia dietro le braccia incrociate, ricordando i condannati al rogo che aveva avuto occasione di vedere. Virgilio prova a rassicurarlo, dicendo che queste fiamme bruciano, ma non uccidono; e di averlo già guidato verso la salvezza anche quando furono in groppa a Gerione, nel XVII canto dell'Inferno, e dunque di avere fiducia anche ora, che sono così vicini a Dio; lo invita a provare il fuoco con un lembo della veste, per vedere come non venga distrutto dalle fiamme. Ma Dante non riesce a vincere la paura; così Virgilio lo incalza: "Tra te e Beatrice è rimasto solo questo muro". Al nome di Beatrice, Dante ritrova il coraggio e la forza, come al nome di Tisbe ritrovò la forza anche il babilonese Piramo, che, credendo morta la sua amata, si diede la morte, ed il cui sangue fece diventare rosso scuro le bacche del gelso; Tisbe lo ritrovò morente, e richiamandolo gli diede la forza per un ultimo sguardo; infine anche lei si uccise sul corpo di lui, causando un lutto comune alle due famiglie che ostacolavano il loro amore (questa storia narrata nelle metamorfosi di Ovidio è la prima di una lunga serie di variazioni sul tema). Così, Dante trova il coraggio di seguire Virgilio nel fuoco, mentre Stazio, che fino ad ora era rimasto tra i due, chiude la fila. Il calore è tale che il vetro bollente sarebbe un refrigerio al confronto; ma Virgilio continua a incoraggiare Dante richiamando il nome di Beatrice, mentre un canto li guida fuori delle fiamme: "Venite, benedetti dal Padre mio"; così, secondo il vangelo di Matteo, Cristo si rivolgerà alle anime elette, nel giorno del Giudizio. L'angelo che canta è talmente luminoso che Dante non riesce a vederlo, mentre li invita ad affrettarsi su per l'ultima rampa di scale, prima che il sole tramonti. La scala sale verso est, ma dopo pochi gradini l'ombra della sera li coglie, e poiché nel Purgatorio sui può procedere solo durante il giorno, i tre si fermano sul proprio gradino, ma Dante si sente tranquillo come una capretta satolla tra due pastori che la sorvegliano; e trova sonno guardando le stelle che appaiono più luminose e grandi del solito. Quando la stella del mattino, Venere Citerea, iniziava a mandare i suoi raggi sulla montagna del Purgatorio, appare in sogno a Dante una bella donna che canta e raccoglie fiori; e dice di essere Lia, la sorella di Rachele che Giacobbe dovette prendere come prima moglie, per poter poi sposare la sorella minore, come gli impose il loro padre Làbano. Lei, che crea ghirlande per farsene ornamento, rappresenta la bellezza della vita operosa, mentre la sorella Rachele, che si rimira gli occhi davanti allo specchio, la bellezza della vita contemplativa. Insieme rappresentano le due strade che conducono alla felicità, secondo quanto Dante scrive anche nella Monarchia: quella della vita terrena, che si persegue con le proprie virtù e seguendo l'insegnamento della filosofia, e quella della vita eterna, a cui si accede solo con la grazia divina e gli insegnamenti spirituali. Si possono associare anche al paradiso terrestre, in cui stiamo per entrare, e dove siamo giunti con la guida di Virgilio, che rappresenta la razionalità, e al Paradiso vero e proprio, da cui ci separano solo sei canti, che visiteremo sotto la guida di Beatrice, che simboleggia l'amore spirituale. Al risveglio, Virgilio promette a Dante il prossimo appagamento del desiderio di felicità che tanta ansia provoca negli uomini; e infonde a Dante un'energia e una volontà che riecheggiano il "folle volo" che Ulisse ci ha raccontato nel XXVI dell'Inferno. Giunto all'ultimo gradino, Virgilio si rivolge al discepolo e gli parla solennemente: "Sei passato con me attraverso l'Inferno e il Purgatorio, ma ormai non posso guidarti oltre. Non hai più bisogno del mio consiglio, non ci sono più ostacoli, e puoi seguire liberamente il tuo volere.Vedi il sole che splende davanti a te, i fiori e le piante che qui nascono spontaneamente; mentre ti sta raggiungendo Beatrice, puoi sederti o camminare dove vuoi, senza più chiedere a me alcun permesso; la tua volontà è libera, giusta e integra, e sarebbe una colpa non seguirla: per questo, io ti proclamo signore e padrone di te stesso". È la consacrazione del raggiungimento della piena maturità di Dante, e di ogni uomo che come lui, seguendo un cammino personale di maturazione, ha imparato a guidare con sicurezza sé stesso, superando le proprie paure e le proprie debolezze. Sono le ultime parole di Virgilio in tutto il poema. |
04/12/2008 00:00:00 | È ricco di preziosismi questo XXVI canto del Purgatorio, a partire dalla prima rima in "altro", che non poteva essere che all'inizio o alla fine del canto, poiché in italiano ha una sola rima in "scaltro", da "scaltrire", che vale "rendere accorto", mentre le terzine normali necessitano di tre rime. Così Virgilio esorta Dante a stare attento ai suoi passi, come già ha fatto sul finire del canto precedente; nel frattempo il sole è vicino al tramonto, e l'ombra di Dante si allunga sulle fiamme; così alcuni peccatori si incuriosiscono e si avvicinano, pur senza uscire dal fuoco, e infine uno lo interpella direttamente. Ma prima che Dante possa rispondere, appare una schiera d'anime venire incontro a quella accanto alla quale procedono i tre poeti; le due schiere di penitenti si avvicinano fino a scambiarsi un rapido bacio, per poi allontanarsi di nuovo, come sembrano fare le formiche quando si incontrano. Appena si voltano, i due gruppi gridano a piena voce: "Sodoma e Gomorra!" quelli che vanno, mentre quelli che tornano biasimano Pasìfe, la madre del Minotauro, il mostro mitologico con la testa di toro, che ella concepì unendosi appunto con un toro, nascosta in una falsa vacca di legno che aveva fatto costruire per soddisfare la sua lussuria. Come il gruppetto che lo osservava ritorna vicino a lui, Dante spiega come egli sia effettivamente ancora vivo ed abbia avuto la grazia di visitare il loro mondo; poi chiede a qualcuno di presentarsi, e di spiegare chi fossero le anime dell'altra schiera. Dopo aver superato lo stupore, riprende a parlare la stessa anima di prima, che spiega come l'altra schiera fosse composta da sodomiti, come fu anche Cesare, che per questo, durante il suo trionfo per le guerre galliche, si dice che fu apostrofato "regina". Per questo essi, a loro maggior vergogna, gridano il nome delle città in cui questo vizio era diffuso, tanto che furono distrutte per lo sdegno di Dio. Il gruppo di cui egli fa parte, invece, è di lussuriosi "eterosessuali", ma poiché si abbrutirono per il loro smodato desiderio, a loro vergogna declamano il nome di colei che più rappresenta quanto questo vizio possa rendere gli uomini abbietti come animali. Poi l'anima si presenta: è Guido Guinizzelli da Bologna, che Dante considera un precursore di quel "dolce stil novo" di cui furono maestri, insieme a lui, Guido Cavalcanti, Lapo Gianni e Cino da Pistoia. Colto dalla sorpresa, solo le fiamme trattengono Dante dal provare ad abbracciarlo, come fecero i figli di Ipsìpile, quando riconobbero e salvarono la madre condannata al patibolo dal re Licurgo, secondo la Tebaide di Stazio. Egli dichiara a Guido la sua ammirazione, in modo tale che questi risponde che il ricordo di lui non potrà cancellarsi neanche con le acque del fiume Lete; Dante spiega di giudicare immortali le sue poesie, ma Guido indica un altra anima, che reputa un poeta migliore di sé e di "quel di Lemosì", cioè il trovatore Giraut de Bornelh di Limoges, malgrado quest'ultimo sia preferito da molti ascoltatori superficiali, come fu preferito anche Guittone d'Arezzo, prima che il gruppo dei poeti stilnovisti non fosse infine giudicato migliore da tutti. Poi Guinizzelli chiede a Dante di recitare un "Padre Nostro" per lui, una volta nei cieli, "quanto bisogna", ossia senza gli ultimi versi "non ci indurre in tentazione", poiché ormai in Purgatorio i penitenti sono immuni dal desiderio di peccare. Infine si ritira tra le fiamme, e sparisce come un pesce che si immerge nell'acqua, lasciando il posto all'anima del poeta che aveva indicato a Dante. Si tratta di Arnaut Daniel, il trovatore di Provenza in lingua d'oc della seconda metà del secolo XII, famoso per le rime preziose delle sue canzoni e delle sue poesie d'amore. Caso unico nella commedia, le sue parole sono riportate nella lingua originaria, un significativo omaggio di Dante a questo poeta, come del resto ricco di rime preziose è tutto il canto. "Tanto gradisco la vostra cortese domanda, che non posso né voglio nascondermi a voi. Io sono Arnaut, che piango e vado cantando. Contrito rivedo la mia follia passata, e lieto vedo la gioia che mi aspetta dinanzi. Ora vi prego, per quella virtù che vi guida al sommo di queste scale, di ricordarvi a suo tempo del mio dolore". E detto questo, scompare di nuovo nel fuoco che li purifica. |
28/11/2008 00:00:00 | Erano già le due del pomeriggio, mentre i tre pellegrini, con Dante in coda, salivano incolonnati verso la settima cornice, nel XXV canto del Purgatorio. Dante si logora per trattenere una domanda, ma Virgilio se ne accorge e lo invita a parlare. La questione che lo arrovella, è come sia possibile che le anime che hanno appena veduto possano dimagrire, visto che nessuna anima ha bisogno di mangiare. Virgilio ricorda a Dante come si consumò Meleagro, figlio di Altea, quando questa, per vendicare suoi fratelli uccisi proprio da lui, fece ardere il ciocco a cui la vita di Meleagro era legata, come le avevano detto a suo tempo le Parche; e come si muova insieme a noi la nostra immagine nello specchio, ad ogni nostro rapido gesto. Ciò che Virgilio intende dire, è che l'ombra dell'anima assume sempre una forma corrispondente ai sentimenti che l'anima stessa prova; ma per maggiori dettagli, incarica Stazio di chiarire le idee a Dante. Stazio si produce in una dissertazione che si ricollega al concepimento, dandoci così un interessante scorcio di quali fossero le idee medioevali su questo argomento, secondo Aristotele, Galeno e Alberto Magno. Spiega che la parte più pura del sangue dell'uomo non viene distribuita nel corpo, ma resta nel cuore dove assimila una "virtù formativa", il che significa che riesce a trattenere dentro di sé le informazioni su come il corpo è composto. Dopo questa trasformazione, scende negli organi genitali, dove si conserva per la riproduzione. Nel medioevo si pensava che il liquido seminale dell'uomo contenesse questo tipo di "sangue purissimo", in grado di attivare la sua capacità formativa nel ventre della donna, dove si mescola con il sangue di lei, che, così come il sangue dell'uomo è predisposto ad agire, è invece predisposto a sopportare e a fornire nutrimento. Dapprima si forma un coagulo, al quale poi la "virtù formativa" infonde vita, che a questo punto è al livello in cui si fermano i vegetali. Ma continuando il suo sviluppo, diventa come una spugna marina, e inizia a muoversi ed a formare gli organi, secondo le informazioni raccolte in precedenza nel cuore dell'uomo. Resta da compiere il passo che separa l'uomo dagli altri animali, e su cui non c'era una dottrina condivisa: e Stazio allude ad un "savio errante", che viene identificato con Averroé. La verità, come la rivela Stazio, è che quando il feto ha completato lo sviluppo del cervello, Dio stesso si volge a lui e gli spira una nuova anima piena di virtù, che assorbe in sé l'anima provvisoriamente attiva fino a quel momento, diventando una sola anima, in grado di vivere, provare sensazioni ed essere cosciente di sé stessa; se questo sembra troppo meraviglioso, è utile considerare come il calore del sole possa generare il vino, quando si unisce al succo spremuto dall'uva. Una volta terminata la sua vita, l'anima si separa dalla carne, conservando la natura umana e divina dell'uomo, con la sua memoria, l'intelligenza e la volontà, mentre cessano tutte le altre funzioni. Come ci ha spiegato Casella nel II canto del Purgatorio, mentre le anime dannate sono condotte sulla riva dell'Acheronte, le altre si radunano alla foce del Tevere, e da questo possono capire il loro destino. Anche senza il corpo, è la stessa "virtù formativa" che si diffonde nell'aria immediatamente intorno, riproducendo la stessa forma che prima era espressa con il corpo, in modo simile a come la luce prende la forma dell'arcobaleno dopo la pioggia. Come la fiamma segue il fuoco, così questa immagine segue l'anima, e poiché da quella dipende la sua apparenza, viene chiamata ombra; e gradualmente sviluppa tutti gli organi di senso, fino alla vista. Grazie a quest'ombra le anime possono parlare, ridere, piangere ed emettere tutti i sospiri che si possono sentire sulla montagna del Purgatorio; e poiché questa ombra modifica la sua apparenza in base ai desideri e agli altri sentimenti dell'anima, così essa, come abbiamo constatato, manifesta anche la fame attraverso la magrezza dei penitenti. Durante questa lunga spiegazione, i tre viandanti sono arrivati alla settima cornice, dove dal lato del monte si sprigionano delle fiamme verso l'esterno, lasciando percorribile solo il ciglio opposto, grazie ad un vento che soffia dal basso verso l'alto. Come già sulla stretta rampa, i tre poeti devono continuare a procedere in fila indiana, e Dante sta molto attento a non avvicinarsi troppo al fuoco dalla parte del monte, né al precipizio dalla parte della valle. Virgilio lo esorta a vigilare sui suoi passi, tenendo a freno l'occhio, ed il consiglio è adeguato anche in considerazione del peccato che qui viene scontato, quella lussuria che, come abbiamo appreso da Virgilio stesso nel XVIII canto, è la conseguenza del desiderio non adeguatamente tenuto sotto controllo, che nasce proprio dalla vista. Ma l'attenzione di Dante è presa dal coro che sente uscire dalle fiamme, l'inno del mattutino del sabato secondo il Breviario Romano, dove si supplica Dio di rimuovere la nostra lussuria per mezzo del fuoco. Gli spiriti camminano nel fuoco mentre cantano; al termine dell'inno, gridano esempi di castità virtuosa: "Virum non cognosco", è la frase con cui Maria giustifica il suo stupore all'angelo che le annuncia la gravidanza di Gesù; dopo il secondo coro, lodano l'intransigenza di Diana, che cacciò dal bosco una delle sue ninfe, Èlice, che si era lasciata sedurre da Giove, cedendo al "veleno di Venere", la lussuria; dopo il terzo, altri esempi di mogli e mariti che vissero il matrimonio con la giusta virtù. Conclude il poeta che grazie a questa cura del fuoco, accompagnata da questi continui canti alternati con gli esempi, i penitenti cicatrizzeranno, alla fine, la piaga del loro peccato. |
21/11/2008 00:00:00 | Nel XXIV canto del Purgatorio prosegue il dialogo tra Dante e Forese, e pare che Dante concluda una frase lasciata in sospeso sul finire del canto precedente, alludendo a Stazio che in compagnia di Virgilio probabilmente sale più lentamente di quanto non farebbe da solo. Chiede a Forese notizie di sua sorella Piccarda, ed egli risponde che si trova già in Paradiso, dove Dante poi la incontrerà nel cielo della Luna. Delle altre anime lì presenti, Forese indica Bonagiunta da Lucca, rimatore toscano della scuola di maniera che fu superata dal "dolce stil novo"; il papa Martino IV originario di Tours, goloso di anguille cucinate nella vernaccia; Ubaldino delgi Ubaldini della Pila, fratello del cardinale Ottaviano che insieme a Federico II è citato da Farinata nel X canto dell'Inferno, nonché padre dell'arcivescovo Ruggeri che il conte Ugolino divora, sempre nell'Inferno, nel XXXIII canto; l'arcivescovo di Ravenna Bonifacio de'Fieschi; il Marchese degli Argugliosi, che aveva fama di gran bevitore, e che una volta si giustificò dicendo di avere sempre sete; ma Dante era rimasto colpito dal primo di questi personaggi, che gli parve pronunciasse il nome di "Gentucca": così, si rivolge direttamente a lui, che gli spiega come questa donna, all'epoca ancora ragazza, farà piacere a Dante la sua città, malgrado sia criticata da molti; ma soprattutto chiede a Dante se fosse proprio il poeta che scrisse le rime che iniziano con "Donne ch'avete intelletto d'amore". Si tratta della canzone contenuta nella "Vita Nova", che raccoglie le prime opere di Dante e in cui ricerca un nuovo modo di fare poesia; come spiega Dante: "Quando sono ispirato dall'amore, trascrivo quello che dentro mi détta". Qui Bonagiunta confessa la sua ammirazione: "Ora vedo la differenza tra lo stile troppo formale del notaio Iacopo da Lentini, di Guittone d'Arezzo e mio, e il dolce stil novo (che per questo verso venne così battezzato) che seguiste voi" (oltre a Dante, Guido Cvalcanti, Lapo Gianni, Cino da Pistoia, con Guido Guinizzelli da Bologna come antesignano). Poi, tace e si incammina di nuovo con gli altri, che riprendono ad andare più spediti, evocando la stessa immagine della lunga schera di gru che già vedemmo nel V canto dell'Inferno. Si attarda ancora, come a riprendere fiato, solo Forese, che chiede a Dante quando lo rivedrà. Dante non sa, ma certo non lo spaventa l'idea di morire, rattistato dallo stato desolante di Firenze. E Forese gli profetizza che colui che ne ha più colpa (e noi sappiamo che allude al fratello Corso Donati, responsabile dell'esilio di Dante), finirà presto trascinato alla coda di una bestia direttamente nell'Inferno; Corso Donati verrà disarcionato e ucciso nel 1308, ma questi versi evocano sia la pena capitale riservata ai traditori, sia il diavolo che lo prenderà. Poi, anche Forese deve correre e raggiungere il gruppo, come un cavaliere che esce di schiera per avere l'onore del primo scontro; ma questa circostanza riecheggia anche la corsa di Brunetto Latini alla fine del XV canto dell'Inferno. Seguendolo con lo sguardo, vide tutti i penitenti riuniti sotto a un albero simile a quello incontrato in precedenza, che bramano come bambini quei frutti irraggiungibili, mostrati loro solo per acuirne il desiderio. Poi tutti ripartono, e quando i tre poeti arrivano all'albero, una voce li invita a proseguire oltre, dove troveranno l'albero del bene e del male, da cui nacque anche questa pianta. E cita due esempi di incontinenza, con le loro miserabili conseguenze: quello dei centauri (figli di Issone e della nuvola Nèfele) che, ubriachi al banchetto di nozze di Piritoo e Ippodamia, diedero inizio ad una zuffa che si mutò in battaglia, ma furono sconfitti da Teseo (nell'Inferno sono messi come guardiani dei violenti nel XII canto); e quello di quei combattenti ebrei a cui, secondo il VII libro dei Giudici, Gedeone non permise di combattere contro i Madianiti, perché non si mostrarono sobri nel bere alla fonte Arad (e anche perché, essendo rimasti in pochi, fosse chiaro che la loro vittoria era voluta da Dio). Procedono oltre i pellegrini, fino ad incontrare l'angelo all'accesso della settima cornice, che li invita a salire, che brilla talmente che Dante ne è quasi accecato, e che toglie la sesta "P" dalla fronte di Dante, emanando un profumo celestiale. E il canto finisce con un ennesimo richiamo ad un altro passo della setssa commedia, una voce che parafrasa la stessa beatitudine citata per gli avari, all'inizio del XXII canto, che era limitata a coloro che avevano "sete" di giustizia, e la completa lodando coloro la cui fame non è esaurita del tutto dal cibo, ma ne continuano sempre a provarne anche per il desiderio di giustizia. |
16/11/2008 00:00:00 | Ho completato le pagine sulla mia "Terza ipotesi" con le conclusioni finali. Queste pagine sono in pratica il riassunto del saggio che ho scritto sull'argomento, che discute in modo più dettagliato ogni singolo problema, ma credo che esse risultino più incisive dell'opera completa, che è circa cinque volte più lunga. Comunque, se una volta lette queste pagine siete interessati a leggere l'intero saggio, posso inviarvene una copia su richiesta. Attualmente sto cercando di ottenere una pubblicazione professionale, anche se ho già capito che la strada è piuttosto ardua. Tuttavia sono convinto della sostanziale novità delle idee che esprimo, per cui ancora non demordo. Intanto, valutate voi. |
14/11/2008 00:00:00 | Nelle pagine sulla "Terza ipotesi" ho aggiunto la mia interpretazione delle metafore mistiche utilizzate spesso per immaginare come potrebbe essere Dio. In particolare, la concezione per cui "tutti siamo parte di Dio" dovrebbe indurci anche a concludere che "tutti siamo tutti" e quindi anche la tesi della terza ipotesi. Una volta assunto questo punto di vista, è facile vedere che l'idea di Dio può essere considerata una "ipotesi non necessaria": la rivoluzione di considerare unico il nostro "io" è di tale portata che l'idea di poter interagire con il mondo anche da uno stato di esistenza "divina", non ha più alcuna particolare utilità. |
13/11/2008 00:00:00 | Ieri sera sono andato al teatro Manzoni a vedere "La parola ai giurati", scritta negli anni '50 da Reginald Rose, diretta e interpretata da Alessandro Gassman, insieme ad altri dodici attori (dodici giurati più una guardia). Si tratta di una avvincente storia "giudiziaria", in cui i giurati devono emettere un verdetto unanime per il caso di un ragazzo che rischia la pena capitale. L'unico giurato inizialmente contrario riesce lentamente a convincere gli altri, salvando così la vita del ragazzo. Per il suo impegno contro la pena di morte, lo spettacolo è patrocinato da Amnesty International. Vi consiglio, se potete, di non mancarlo: si tratta di uno di quegli spettacoli che si seguono dall'inizio alla fine senza una pausa, senza una caduta d'attenzione; uno di quegli spettacoli che dimostrano quanto il teatro possa essere vivo e coinvolgente. Dopo lo spettacolo, ho avuto il piacere di poter salutare e fare i miei complimenti personali ad Alessandro, che è stato uno dei miei compagni di corso nei mitici tempi della "bottega" di Vittorio Gassman, come anche Fabio Bussotti e Sergio Meogrossi, che ho rivisto con piacere dopo tanti anni; ma non ho mancato di complimentarmi anche con gli altri attori, tutti molto bravi, che hanno dato vita a uno spettacolo così bello e coinvolgente. |
12/11/2008 00:00:00 | Il XXIII canto del Purgatorio inizia con Virgilio che riscuote Dante dal suo fissare tra le fronde dell'albero come se fosse un cacciatore; e mentre i tre si riavviano, sopraggiunge da dietro un gruppo d'ombre che piangono e cantano un verso del Miserere, "signore, schiudimi le labbra" (per proclamare le tue lodi), e come si avvicinano, Dante è colpito dalla loro estrema magrezza, e li paragona a Erisittone, straziato dalla fame da Cerere per aver abbattuto un albero a lei sacro, a agli abitanti di Gerusalemme ridotti alla fame durante l'assedio del 70 d.C., quando Maria di Eleazaro arrivò addirittura a nutrirsi del figlio. I loro occhi erano così scavati che appariva come nei lineamenti del viso si possa leggere la parola "OMO" (dove la "M" starebbe al posto del naso). Una di queste ombre riconosce con stupore Dante, e solo a causa della sua voce anche Dante lo riconosce: è Forese Donati, un amico con cui Dante scambiò dei sonetti scherzosi (anche se ingiuriosi). Dante è curioso di sapere come possano patire la fame, pur essendo anime: e Forese gli spiega che per tutta la cornice sono logorati dal desiderio di mangiare e bere per il profumo che esce dall'albero e dalla sua rugiada; ma che la loro benevolenza nell'accogliere la pena è analoga a quella di Gesù che morì per la nostra salvezza, quando sulla croce mormorò il nome di Dio. E spiega a Dante che, malgrado si fosse pentito tardi dei suoi peccati, le preghiere devote di sua moglie Nella, che ancora piange per lui, hanno potuto intercedere presso Dio, risparmiandogli non solo una lunga sosta nell'antipurgatorio, ma anche una lunga dimora in qualche cornice sottostante. Parlando della pia moglie, Forese passa a criticare i costumi delle donne di Firenze, ormai più libertine di quelle, di cultura più primitiva, che popolano la Barbagia in Sardegna, o quelle barbare o saracene; e grazie alle doti di preveggenza che condivide con le altre anime, predice che prima che chi è infante sia diventato adulto, sarà ristabilita una legge che le costringerà ad essere più pudiche. Poi chiede a Dante come sia arrivato fin lì: e questi spiega come Virgilio l'abbia accompagnato, ancor vivo, nell'Inferno ed ora su per il Purgatorio, e come concluderà il suo viaggio in compagnia di Beatrice, che sicuramente Forese aveva avuto modo di conoscere in vita. Infine, spiega che l'altro poeta, Stazio, sia l'anima ormai purificata dal peccato, per cui poco prima ha tremato tutta la montagna. |
07/11/2008 00:00:00 | Prosegue l'esposizione della "Terza ipotesi". La pagina di questa settimana presenta le compatibiltà tecniche che la terza ipotesi ha con alcune delle attuali proposte cosmologiche; so bene di non dimostrare nulla, ma il mio obbiettivo è solo far superare il pregiudizio per cui essa non possa essere scientificamente sostenibile. Una volta accettata la sua ammissibilità, non ci sono altri ostacoli per considerare come essa riesca a dare una visione della nostra esistenza molto meno nebulosa di quelle che propongono tutte le metafisiche alternative. Essa rappresenta il tassello mancante che riesce a dare senso alla visione "scientifica" della vita, senza pretendere in cambio alcuna condizione di "adeguamento" della scienza a qualche dogma o il riconoscimento di qualche "autorità trascendente". |
05/11/2008 00:00:00 | Praticamente il XXII canto del Purgatorio consiste in un continuo dialogo tra Virgilio e Stazio, e all'inizio appena si accenna al fatto che un angelo li aveva introdotti alla scala per la sesta cornice, ed aveva cancellato la quinta "P" dalla fronte di Dante, ripetendo una frase del discorso della montagna di Gesù: "Beato chi ha sete di giustizia, perché sarà saziato". Virgilio racconta a Stazio come il poeta Giovenale, quando lo raggiunse nel limbo, gli disse dell'affetto che Stazio provava per lui, e che quindi iniziò a contraccambiarlo, per quanto non lo avesse mai visto. Si permette, in nome di questa loro amicizia, di chiedergli come mai fosse nella cornice degli avari; e Giovenale spiega che nella stessa cornice si punisce anche la colpa opposta, l'eccessiva prodigalità, e di questo egli si era macchiato, e sarebbe finito a sospingere macigni nel quarto girone dell'Inferno, se non si fosse ravveduto proprio leggendo un passo dell'Eneide, in cui, forzando un po' la traduzione dal latino, Enea pare deprecare la troppa disinvoltura nello spendere. Virgilio poi gli chiede come e quando si convertì, poiché non sembrava ancora convertito quando, ispirato dalla musa Clio, cantava nella Tebaide dell'aspra guerra tra Etèocle e Polinice, i due figli di Giocasta. Stazio risponde che, dopo averlo convertito alla poesia, fu sempre Virgilio a convertirlo al Cristianesimo, che aveva illuminato la via a coloro che lo seguivano, quando scrisse quei versi dell'Ecloga IV che nel Medioevo erano considerati come una profezia dell'avvento di Cristo. Così Stazio si fece battezzare prima di scrivere la Tebaide, ma la sua conversione restò clandestina, e per questo, prima di passare tra gli avari e prodighi, ha trascorso quattrocento anni nella cornice degli accidiosi. Stazio poi chiede a Virgilio di altri poeti latini, come Terenzio, Cecilio, Plauto e Vario; e Virgilio conferma che sono tutti con lui nel limbo, insieme al poeta latino Persio e al greco Omero, che le muse nutrirono più di ogni altro. Riprendendo il lungo elenco che nel IV canto dell'Inferno enumerava gli abitanti del limbo, Virgilio aggiunge ancora i poeti greci Euripide, Antifonte, Simonide e Agatone, nonché alcuni personaggi della Tebaide: Antìgone, Dèifile, Argìa, Ismène e Ipsìpile, indicata come colei che indicò la fonte Langìa ai sette eroi che da Argo marciavano contro Tebe; e ci sono anche la figlia di Tiresia (Manto, che veramente Dante aveva già collocato nel terzo cerchio di Malebolge...), ed alcuni personaggi dell'Achilleide, come la madre Tètide e la sposa Deidamìa con le sue sorelle. Nel frattempo, i tre viandanti sono giunti sulla sesta cornice, e Virgilio propone di percorrerla in senso antiorario, come le precedenti. Arrivano infine ad un albero che sta in mezzo al cammino, che è simile ad un abete, se non che i rami si fanno meno folti alla base invece che sulla cima, ed è innaffiato da un'acqua chiara che cade dal basso verso l'alto. Come si avvicinano, si ode una voce tra i rami: "Di questo cibo dovrete fare a meno" (dove "avrete caro" sta per "avrete carestia"), che parafrasa l'ammonizione di Dio ad Adamo riguardo all'albero del bene e del male; poi elenca esempi della virtù della sobrietà, contrapposta al peccato della gola che su questa cornice si punisce: Maria alle nozze di Cana si preoccupò più della riuscita del banchetto, che non di mangiare; le antiche romane bevevano solo acqua; il profeta Daniele rinunciò ai pasti offerti Nabuccodonosor, pur di non rinunciare a studiare secondo la tradizione ebraica; nell'età dell'oro, la fame faceva diventare saporite anche le ghiande e nettare i ruscelli; san Giovanni Battista nel deserto si nutrì solo di miele selvatico e locuste, ed anche per questo motivo diventò così glorioso come narrano i vangeli. |
31/10/2008 00:00:00 | Ho aggiunto alla "Terza ipotesi" la pagina con maggiori dettagli sulla mia proposta di soluzione dell'"enigma dell'io". Non so quanto utili siano le mie divagazioni su questi temi esistenziali, o meglio, non riesco da solo a giudicare quanto efficaci possano essere le mie argomentazioni. Forse ho un problema di forma che impedisce ai contenuti di rifulgere quanto meritano. Ma il solo fatto, che ormai mi pare acquisito, che questa idea non sia mai stata discussa nella forma esplicita che propongo, mi sembra valere lo sforzo che sto facendo per presentarla. |
29/10/2008 00:00:00 | Alla fine dello scorso canto, abbiamo lasciato Dante travagliato dalla curiosità di sapere cosa avesse causato il boato e il coro che hanno fatto tremare tutta la montagna del Purgatorio. Così lo ritroviamo qui, all'inizio del XXI canto, che segue Virgilio in silenzio, con la sua inappagata sete di conoscenza. Come Cristo risorto apparve ai discepoli sulla via di Emmaus, così appare un'ombra dietro a loro, che li saluta in pace. Formulando il suo saluto di risposta, Virgilio lascia intendere d'essere salito fin lassù dall'Inferno, suscitando lo stupore dell'anima; al che, spiega come Dante sia ancora vivo, poiché le parche non hanno ancora finito di filare dal suo fuso, e come egli sia stato incaricato di accompagnarlo. Poi, con gran sollievo di Dante, gli chiede la ragione del terremoto che ha scosso il monte. Allora l'anima spiega che, a partire dai tre gradini su cui è seduto l'angelo di guardia all'ingresso del Purgatorio, non si produce alcun evento atmosferico che sia dovuto alle cause che operano sulla Terra, ma ogni fenomeno è dovuto unicamente alla volontà divina. In questo caso, il terremoto e il coro di tutti i peccatori segnalano che un'anima ha terminato la sua purificazione ed è pronta a salire nei cieli. Questo cambiamento è sentito dall'anima stessa, che improvvisamente si sente invasa da una volontà che non è più frenata dal desiderio di espiazione delle proprie colpe; e questo è ciò che gli è appena capitato. Dante finalmente ha appagato la sua curiosità, e Virgilio chiede all'anima chi egli fosse. Si tratta di Publio Papinio Stazio, un poeta latino dallo stile semplice ed elegante, che erroneamente Dante fa nascere a Tolosa, ma fu di Napoli, e venne a Roma sotto l'imperatore Tito Flavio Domiziano. La sua opera principale è la Tebaide, mentre lasciò incompiuta una Achilleide. Parlando, confessa la sua ammirazione per Virgilio e la sua Eneide, e dice addirittura che sarebbe stato disposto a passare ancora un anno in Purgatorio, se in cambio avesse potuto vivere al tempo in cui egli visse. È chiaro che non si è reso conto del fatto che Virgilio è lì presente: il quale lancia un'occhiata fulminante a Dante, perché taccia, ma inutilmente: Dante non riesce a trattenere un breve sorriso, che Stazio subito ha colto, e glie ne chiede la ragione. Dante allora si trova stretto tra due fuochi: non vuole disobbedire a Virgilio, né essere scortese con Stazio; per sua fortuna, Virgilio comprende il suo stato d'animo e gli dà il permesso di parlare. Così Dante spiega a Stazio che il suo accompagnatore è proprio Virgilio, e che solo per questo stava sorridendo. Stazio si getta istintivamente ai piedi di Virgilio, che però subito gli ricorda che "tu se' ombra, e ombra vedi". Stazio si rialza, giustificando con la grandezza dell'ammirazione che nutre per lui la sua momentanea dimenticanza del loro stato di ombre. |
24/10/2008 00:00:00 | Procede la mia opera della "Terza ipotesi", con la fondamentale pagina in cui si spiega quale è la soluzione, con riferimento al problema esistenziale illustrato nella pagina precedente; senza falsa modestia, sono convinto di essermi imbattuto (forse solo per caso) in qualcosa di importante, che mi piacerebbe riuscire a proporre nel dibattito filosofico contemporaneo; per questo ho iniziato a molestare conoscenti vicini e lontani che possano aiutarmi a raggiungere questo obbiettivo. Ho fiducia che questa idea, se riesce a prendere piede, sarà destinata a essere valutata in modo migliore con il passare del tempo; ma mi farebbe piacere avere almeno la sicurezza che non andrà perduta, e magari anche avere la soddisfazione di assistere ai suoi primi riconoscimenti. Anche se siete visitatori casuali, provate a misurare la sua persuasività; in fondo ad ogni pagina è disponibile la possibilità di esprimere la vostra opinione. |
22/10/2008 00:00:00 | Nel XX canto del Purgatorio Dante lascia Adriano V alla sua penitenza, e prosegue la salita con Virgilio, camminando con attenzione tra i peccatori, riprendendo il paragone tra l'avidità e una lupa affamata di cui auspica la cacciata imminente, che già abbiamo incontrato nel primo canto dell'Inferno. Tra i lamenti, riconosce una voce che invoca Maria, che viene lodata come esempio di virtù contraria all'avidità, per la povertà in cui partorì Gesù, e il console Fabrizio Luscinio, che preferì una onesta povertà alla ricchezza che il re Pirro gli offrì per ingraziarselo. Dante gli si avvicina, mentre egli ancora loda la generosità priva di ostentazione del vescovo san Nicola di Mira che fece una donazione anonima a tre fanciulle povere permettendo loro di sposarsi onestamente, mentre il padre le spingeva a prostituirsi. Per inciso, questo san Nicola è conosciuto anche come san Nicola da Bari, e in nord Europa come Santa Klaus, per cui si tratta del personaggio storico da cui è nata la figura di Babbo Natale. Dante raggiunge il penitente e gli chiede chi sia: ed egli risponde di essere Ugo Capeto, il capostipite dei re Capetingi di Francia, che dureranno oltre l'epoca di Dante, fino a Luigi XVI. Egli si duole della "mala pianta" che ha generato, preveggendo una sconfitta dell'esercito reale dai fiamminghi di Douai, Lille, Gand e Bruges, e prega Dio ("colui che giudica tutto") che avvenga presto. Racconta (in modo storicamente non troppo preciso) come egli fosse figlio di un macellaio di Parigi, e quando i precedenti re Carolingi si estinsero (salvo Lodovico V che però si fece monaco), si fosse ritrovato nella posizione più favorevole per ereditare il regno e così, a partire da suo figlio, i suoi discendenti furono re di Francia. Non fecero troppi danni, finché non si impadronirono anche della Provenza; ma da quel momento in poi la loro avidità non ebbe più freni. Sono responsabili della conquista di Ponthieu, della Normandia e della Guascogna; Carlo I d'Angiò, sceso in Italia, sconfisse e fece decapitare Corradino di Svevia, e secondo alcune fonti fece uccidere anche san Tommaso d'Aquino. Carlo di Valois armato di poche milizie e molta astuzia, entrò a Firenze come paciere e poi cacciò i guelfi bianchi, tra cui anche Dante. Carlo II d'Angiò combinò un matrimonio di convenienza tra la figlia giovanissima Beatrice e Azzo d'Este, in pratica facendone mercimonio. Infine, Filippo il Bello fece minacciare il vecchio papa Bonifacio VIII, a cui pure Dante non ha risparmiato critiche, ma che rappresentava comunque il vicario di Cristo in terra; non sazio, perseguì e fece sopprimere l'ordine dei Templari (a cui, secondo alcuni studiosi, anche Dante era affiliato). Terminata la rassegna di nefandezze della sua progenie, il penitente spiega a Dante che di giorno tutti loro lodano gli esempi di accettazione virtuosa della povertà, mentre di notte pronunciano esempi di avidità punita: Pigmalione, fratello di Didone, fece uccidere il cognato Sicheo per cupidigia d'oro; il re Mida, che dopo aver ottenuto di mutare in oro ciò che toccava, rischiò di morire di fame e sete, e la sua ingordigia suscita ancora ilarità; Achàn, che nel saccheggio di Gerico trasgredì agli ordini di Giosuè, e fu condannato a morte; Saffira e suo marito Ananìa, che ingannarono san Pietro sulla vendita di un podere, e morirono sul colpo; Eliodoro, amministratore del re Seleuco di Siria, che voleva confiscare il tesoro del tempio di Gerusalemme e fu abbattuto da un cavallo montato da un cavaliere misterioso; Polinestore, che uccise Polidoro per sottrargli il tesoro di Troia; Licinio Crasso, nella cui testa mozza il re dei Parti fece versare oro fuso, per punire la sua avidità. Infine, precisa che tutti i peccatori in quella cornice parlano come lui, ma che Dante ha sentito lui solo perché, occasionalmente, parlava a voce più alta. Dante si sta allontanando con Virgilio, quando un terremoto scuote la montagna del Purgatorio come quando Latona partorì a Delo Apollo e Diana. Virgilio lo tranquillizza, e si innalza un grandioso coro "Gloria in excelsis Deo"; poi, gradualmente, tutto torna alla normalità e i due riprendono il cammino, ma Dante, che non osa chiedere a Virgilio, continua a domandarsi cosa mai fosse accaduto, mentre avanza timido e pensoso. |
17/10/2008 00:00:00 | Ho aggiunto la seconda pagina dedicata alla "Terza ipotesi", che è dedicata a spiegare quale è il problema, e a rileggerla temo purtroppo che il problema sia che risulta più faticosa della precedente, ed anche poco conclusiva. Per la conclusione, è necessario aspettare la prossima pagina, che si dedicherà appunto a spiegare quale sia la soluzione: per adesso, spero almeno di aver mostrato che, se non ammettiamo la terza ipotesi, siamo costretti a riconoscere di aver avuto una immeritata fortuna ad avere sia pure un effimero ruolo in questo nostro complicato mondo. Ricordo che il sito è aperto agli interventi di tutti, e quindi è possibile indicarmi, anche in forma privata, quali punti possono meritare un successivo approfondimento, che mi riservo di rimandare fino a quando non sia completata la prima stesura delle pagine previste. |
16/10/2008 00:00:00 | Il XIX canto del Purgatorio, inizia con il sogno di Dante di una figura femminile balbuziente e deforme che si avvicina a lui; ma come egli la guarda, gradualmente lei diventa più bella, e inizia a cantare soavemente di essere una sirena ammaliatrice dei marinai, che riuscì a distogliere anche Ulisse dal suo desiderio di nuove scoperte; ma ecco che appare un'altra donna, onesta e sollecita, che chiama Virgilio in soccorso; il quale mostra a Dante come la dolce sirena non sia altro che una ingannatrice ripugnante. Dante si sveglia, mentre Virgilio lo chiama; il sole è già sorto ed essi raggiungono l'angelo che indica il passaggio verso la quinta cornice, e con un colpo d'ala toglie la quarta "P" dalla fronte di Dante; egli però avanza ancora pensieroso per il sogno appena fatto e, come se fosse stato realmente presente, Virgilio gli spiega che quella creatura rappresentava l'incontinenza del desiderio che si punisce nelle tre rimanenti cornici del Purgatorio. Conformemente a quanto gli ha spiegato nel canto scorso, il fascino di queste passioni ingannevoli si controbatte con la ragione, rappresentata dalla donna onesta e da Virgilio stesso, che ha svelato l'inganno. Confortato da questa spiegazione, Dante sale su per il varco con la spinta di un falcone da caccia. Sulla quinta cornice sono puniti gli avari, ma per noi è più adeguato pensare agli avidi, perché il loro peccato non è quello di non aver condiviso i propri beni con gli altri, quanto piuttosto di essere stati preda di una insaziabile bramosia di possesso di beni e potere. Come da vivi non fecero caso alle cose celesti e cercarono solo i beni terreni, così qui sono costretti a stare sdraiati e voltati verso terra. Virgilio chiede loro quale sia la via più breve per proseguire, e risponde un'anima a cui Dante chiede chi sia: si tratta del papa Adriano V, che morì poco più di un mese dopo la sua elezione; ma fu abbastanza per rendersi conto di quanto vana fosse la bramosia di potere che lo aveva spinto fino a quel titolo, che lo lasciava insoddisfatto, nonostante rappresentasse il massimo traguardo possibile per l'ambizione terrena. Così si rivolse appena in tempo alla vera fede, anche se adesso sconta i suoi precedenti peccati. Dante, al cospetto di un papa, istintivamente si inginocchia; ma egli lo esorta a rialzarsi: qui sono tutti ugualmente servitori dello stesso unico Signore, e cita una frase di Gesù Cristo in cui dichiarava che in cielo non ci sono legami di matrimonio, e quindi, per estensione, neanche gerarchie ecclesiastiche. Prima di tacere, l'anima ricorda con benevolenza una sola nipote, Alagia, che è l'unica che ancora prega per lui, e che probabilmente è la fonte di Dante di questa conversione di Adriano V, poiché ebbe occasione di incontrarla quando, durante il suo esilio, fu ospitato in Lunigiana dai marchesi Malaspina. |
10/10/2008 00:00:00 | Nella mia irrequietezza comunicativa,sono finalmente riuscito a partorire la prima paginetta dedicata alla "Terza ipotesi", che chiarisce quale è il tema del mio filosofare e introduce la distinzione tra le tre ipotesi, ed in particolare in cosa consista questa mia proposta e quali siano i suoi elementi di novità. Invito tutti gli interessati ed i curiosi a seguire la stesura di queste pagine, che può essere proficuamente influenzata dai vostri commenti, per i quali ho previsto un form in ogni pagina. |
09/10/2008 00:00:00 | All'inizio del XVIII canto del Purgatorio, ritroviamo Virgilio che ha appena terminato la sua spiegazione sulla classificazione dei peccati; Dante, non senza qualche scrupolo, gli chiede di specificare meglio la natura dell'amore. Virgilio spiega che l'amore sorge in modo naturale per ogni cosa che dà piacere, che accende il desiderio; però non tutte queste forme d'amore sono lodevoli. Dante chiede come possa essere ascritto all'anima il merito o la colpa di queste forme d'amore, se sorgono tutte in modo naturale. Virgilio allora specifica che ogni cosa ha una sua forma sustanziale, che nel caso dell'uomo è la sua anima, che non è visibile direttamente, ma si manifesta attraverso le sue azioni; ed ogni desiderio naturale, può e deve essere sottoposto al vaglio della sua consapevolezza razionale, e la responsabilità delle nostre scelte nasce proprio da questo esame critico, che rende possibile la morale: questo è ciò che Beatrice chiamerà "libero arbitrio". Dante ripensa a questi insegnamenti, mentre sotto il cielo stellato con la luna alta, sta per essere preso dal sonno. Ma all'improvviso alle loro spalle sopraggiunge una calca di gente che corre e grida esempi di sollecitudine, come virtù contraria dell'accidia: Maria che, già incinta di Gesù, va a trovare la cugina Elisabetta, che anche se vecchia, è miracolosamente incinta di Giovanni Battista, e Cesare, che lasciando Decimo Bruto all'assedio di Marsiglia, andò a combattere i pompeiani Afranio e Petreio ad Ilerda, in Spagna, mentre gli altri incalzano con altri incitamenti. Virgilio chiede se qualcuno possa indicare loro la strada per proseguire appena farà mattina: gli risponde, scusandosi per la fretta che gli impone la giustizia divina, l'anima di un abate di San Zeno a Verona, che non perde occasione di biasimare come l'abbazia fosse stata affidata al figlio indegno di un potente signore dell'epoca; si tratta di Alberto della Scala, signore di Verona, che impose a capo del convento il figlioccio Giuseppe, nonostante le sue evidenti menomazioni fisiche e mentali. È notevole il fatto che Dante non si sia fatto scrupolo di muovere questa critica malgrado fosse stato ospite del suo successore, Cangrande della Scala. È anche il caso di notare come questa critica di indebite ingerenze del potere dei nobili nelle gerarchie ecclesiastiche sia perfettamente speculare alle critiche di Marco Lombardo nel XVI canto. In coda alla torma che fugge, altre due anime gridano la loro riprovazione per quegli ebrei che nel deserto, per mancanza di fede, rifiutarono di seguire Mosè verso il Giordano, e perirono miseramente; e per quei troiani che, sfiduciati e stanchi di seguire Enea nelle sue peregrinazioni, si stanziarono in Sicilia occidentale, accontentandosi a un'esistenza priva di gloria. Una volta dileguati tutti questi penitenti, Dante infine si perde nei suoi pensieri e si addormenta passando gradualmente da quelli al sogno. |
08/10/2008 00:00:00 | Ho fatto molte belle cose in questi giorni, ed in particolare ho partecipato per tutto il fine settimana ad un seminario "full-immersion" di filosofia, organizzato dal Centro Coscienza di Milano, che si è tenuto a Morosolo, presso il lago di Varese. Abbiamo avuto un tempo straordinariamente bello e conserverò questo ricordo come una parentesi trascorsa "in stato di grazia". Dire che abbiamo parlato di Aristotele, Cartesio e Nietzsche è riduttivo. L'esperienza è stata molto più coinvolgente, e penso che ognuno di noi abbia lasciato il seminario con la consapevolezza che "qualcosa è cambiato" dentro di noi. Voglio salutare ad uno ad uno tutti gli amici presenti: Guliano, Cristina, Marina, Ivana, Mimma, Rita, Marcella, Elena, Alberto, Marta 1 e Marta 2, Silvia, Marcello, Michele, e Sergio, che è stato mio compagno di stanza. Se passate a trovarmi su questo mio sito, non mancate di dare un'occhiata alla parte dedicata alla filosofia, e in particolare alla "Terza ipotesi" che dopo la nostra esperienza ho iniziato a rielaborare con un nuovo entusiasmo Per oggi i contenuti sono ancora vuoti, ma il sito è stato ristrutturato per accogliere tutti i vostri commenti: tornate a visitarlo tra qualche giorno! Per coloro che preferiscono intrattenersi in modi meno impegnativi, colto da subitanea ispirazione ho scritto un nuovo programmino inutile dedicato all'assistenza per la risoluzione dei sudoku. Come potete leggere nelle note che lo accompagnano, il programmino non si prefigge di risolvere il gioco, ma di aiutare il solutore nella parte più noiosa, quella dei controlli delle caselle univocamente determinate, in modo da permettergli di dedicarsi con maggior soddisfazione alla parte più creativa, in cui è necessario fare ipotesi per la compilazione delle caselle ancora libere. Buon divertimento. |
30/09/2008 00:00:00 | Non impropriamente, dopo quasi due mesi di pausa, riprendo le mie letture della Divina Commedia con il XVII canto del Purgatorio, che ci introduce alla cornice degli accidiosi. Dante ci racconta come lentamente stava affiorando dal buio della precedente cornice degli iracondi, quando fu preso da tre rapide visioni di iracondia punita: l'immagine dell'usignolo in cui fu mutata Progne, dopo che per vendetta ebbe dato in pasto al marito Tèreo il figlioletto Ifi; la crocifissione del feroce Aman, che il re Assuero, convinto da Esther, condannò alla morte che egli aveva predisposto per il saggio Mardocheo; il pianto di Lavinia sul corpo della madre Amata, che si uccise credendosi responsabile della morte di Turno, che ella aveva spinto alla guerra contro Enea, non accettando le nozze di questi con sua figlia. Poi una forte luce scuote il pellegrino dalle sue visioni, ed un angelo invita lui e Virgilio a salire le scale che conducono alla cornice successiva. Mentre sale, Dante si accorge come in un batter d'ala un'altra "P" sia sparita dalla sua fronte; e come arrivano al sommo della scala, una spossatezza li pervade, mentre le prime stelle iniziano a brillare in cielo. Sostando un poco, Dante chiede a Virgilio quale peccato sia qui punito, e il maestro non solo chiarisce che si tratta degli accidiosi, ma traccia una panoramica del Purgatorio analoga a quella che a suo tempo fece nel canto XI dell'Inferno. Qui nel Purgatorio, la catalogazione dei peccati rispecchia quella dei tradizionali sette vizi capitali: superbia, invidia, iracondia, accidia, avarizia, gola, lussuria. Questi peccati, che sono puniti in Purgatorio a condizione che siano stati per tempo seguiti da un sincero pentimento, possono essere considerati come "errori" della facoltà d'amare che ogni uomo ha. Virgilio spiega che l'amore naturale, ad esempio quello che ci lega ai genitori, è sempre senza errori, mentre l'amore che si segue con la ragione può errare per essere rivolto all'oggetto sbagliato, oppure per essere espresso in modo troppo fiacco o troppo impetuoso. Poiché, almeno per quanto riguarda la giurisdizione del Purgatorio, non si può volgere da sé stessi l'amor proprio, e non si può non amare Dio in quanto creatore della nostra vita, l'errore d'amore può avere come oggetto solo il nostro prossimo. La mancanza d'amore per il prossimo si manifesta nei superbi, che vogliono primeggiare a costo di umiliare gli altri, negli invidiosi, che temono di perdere i loro privilegi se vengono riconosciuti i meriti degli altri, e negli iracondi, che sfogano sugli altri il loro rancore per le ingiustizie che pensano di avere subito. Gli altri peccati non errano per mancanza d'amore o per cattivo oggetto, ma per la loro misura: per gli accidiosi, la colpa è quella di non avere abbastanza bramosia di raggiungere l'oggetto del loro amore, che in definitiva è Dio; mentre l'opposto peccato di incontinenza riguarda chi si è dedicato con troppa insistenza a godere dei beni che Dio ci rende disponibili; Virgilio invita Dante a capire da solo quali siano le tre sottocategorie che lo suddividono, ma senz'altro Dante sa già che si tratta dell'avarizia, della gola e della lussuria. |
23/09/2008 00:00:00 | Per festeggiare degnamente il mio 47esimo genetliaco, ho terminato di preparare il secondo nuovo video realizzato con Giovanni Guarino, "Ballata delle madri" di Pier Paolo Pasolini, che ho aggiunto in testa alla pagina di recitazione. Grazie Giovanni per il tuo bel lavoro, i nostri video toccano vette di qualità che da solo non avrei potuto raggiungere. |
16/09/2008 00:00:00 | La pausa estiva si è protratta più del previsto, ma non in modo improduttivo. Insieme a Giovanni Guarino, con cui già lo scorso anno abbiamo realizzato il video "La lunga strada", abbiamo preparato un paio di nuovi video, di cui oggi sono felice di presentare il primo: si tratta di "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi" di Cesare Pavese, che ho aggiunto in testa alla pagina di recitazione; tuttavia ho mantenuto anche la preesistente versione audio a beneficio di coloro che volessero ascoltarla con un lettore MP3. La collaborazione con Giovanni è ricca di soddisfazioni, e spero di riuscire presto a presentarvi anche il secondo video. |
02/08/2008 00:00:00 | Quanto era luminoso il XV canto, tanto è buio il XVI canto del Purgatorio, ambientato nella terza cornice, dove sono situati gli iracondi. In questo buio che irrita gli occhi, Dante si fa guidare dal braccio di Virgilio, mentre si sentono voci che cantano all'unisono i versi di preghiera che iniziano con "Agnus Dei", cioè "agnello di Dio", l'appellativo con cui Giovanni Battista aveva chiamato Gesù, che è l'esempio migliore della mansuetudine di cui difettarono questi peccatori. Uno di essi interpella Dante, che gli spiega di avere il privilegio di essere solo un visitatore, e gli chiede se può accompagnarli per trovare la via verso la prossima cornice. L'anima fa loro strada con la sua voce, e si presenta come Marco Lombardo, che fu un saggio uomo di corte del duecento, forse della Marca Trevigiana. Presentandosi, accenna con amarezza alla decandenza dei valori cortesi, e Dante ricorda come due canti fa anche Guido del Duca abbia espresso le stesse critiche; così chiede a Marco se questa decadenza sia causata da una congiuntura astrale poco benigna, o sia solo responsabilità degli uomini. Marco chiarisce che le stelle dànno solo una influenza iniziale, ma è l'uomo, con il suo libero arbitrio, ad avere le responsabilità delle sue azioni, altrimenti la giustizia divina non sarebbe motivata. I versi successivi sono quelli citati in "Animula" di Thomas Eliot, di cui potete trovare un mio breve video nella pagina dedicata al "Centro Coscienza": l'anima nasce come una bambina che piange e ride in modo istintivo, ma va saputa educare in modo che possa esprimere consapevolmente il suo intelletto, che non è influenzato dagli eventi astrali. Per questa educazione è necessaria la legge, che deve essere amministrata dall'imperatore, mentre la prerogativa dei sacerdoti è invece quella di interpretare ed esporre le Sacre Scritture. In conformità con un'allegoria biblica, queste prerogative sono associate alle due qualità che devono avere le bestie considerate "pure" e quindi "commestibili" nell'Antico Testamento: devono essere ruminanti con lo zoccolo bipartito (come le mucche, ma non come i cammelli o i maiali). Purtroppo, quando il Papa si arroga poteri temporali, si verifica questa sovrapposizione che con il suo cattivo esempio è la prima causa della degenerazione dei nobili valori della cortesia. Marco continua citando, come esempi di tre vecchi nobili ancora vivi, Corrado da Palazzo, Gerardo da Camino e Guido da Castello. Dante sembra non riconoscere il secondo, e chiede altre informazioni; Marco si meraviglia che, essendo toscano, non ne abbia sentito parlare, ed aggiunge che ha una figlia che si chiama Gaia. Ma ormai si intravede un barlume che indica la vicinanza dell'angelo che sta all'accesso della cornice superiore, e il buon Marco deve congedarsi da Dante e Virgilio. Mi congedo anch'io per qualche settimana, dopo aver terminato questo cinquantesimo canto dei cento di tutta la Divina Commedia. Buone vacanze a tutti. |
22/07/2008 00:00:00 | Il XV canto del Purgatorio brilla di luci che si moltiplicano e si riflettono fino alla sua fine. Inizia con Dante e Virgilio che camminano verso il sole abbagliante del pomeriggio; Dante si accorge che la luce diventa più intensa, si ripara gli occhi con la mano, ma non riesce a distinguere cosa accada; Virgilio gli spiega che si tratta di un altro angelo, e che presto anche lui sarà in grado di sopportarne la vista. L'angelo li invita a salire per una scala erta meno delle precedenti, e subito Dante sente due cori che parafrasano due passi del discorso della montagna di Cristo. Salendo, Dante chiede a Virgilio dei chiarimenti su una frase che nel canto precedente aveva pronunciato Guido del Duca, che alludeva alla colpa di desiderare ciò per cui è conveniente escudere gli altri compagni ("là v'è mestier di consorte divieto", v. 87). Virgilio spiega che solo i beni materiali diminuiscono quando aumenta il numero di coloro con cui sono divisi, mentre l'amore e la carità celeste crescono con il numero dei partecipanti, così come un raggio di luce si moltiplica quando si riflette su tanti specchi vicini. Appena affacciato sulla terza cornice, su cui scontano le loro colpe gli iracondi, Dante è rapito da tre visioni mistiche, in cui si esalta la virtù del perdono, che rappresenta l'opposto dell'ira: nella prima, la Madonna si rivolge a Gesù adolescente che si era allontanato da casa, lasciando i genitori in apprensione, quando si mise a discutere con i saggi nel tempio di Gerusalemme; nella seconda, Pisistrato placa l'ira della moglie che avrebbe voluto che egli si vendicasse di un giovane che aveva corteggiato pubblicamente la loro figlia; nella terza, rivede il martirio di santo Stefano, che, lapidato, non cessa di tenere lo sguardo sulla visione del regno dei cieli che gli era sempre di fronte, e muore perdonando i suoi assassini. Appena Dante torna in sé, è subito invitato da Virgilio a proseguire con un passo più sicuro; ma ecco che in questo scenario di luce riflessa e diffusa, avanza una scura nebbia che inesorabilmente avvolge e toglie il respiro ai due pellegrini. |
10/07/2008 00:00:00 | Purgatorio, XIV canto. Altre due anime di invidiosi si rivolgono a Dante, chiedendogli chi sia, lui che ha tanta grazia da venire da vivo nel regno dei morti. Dante tace il suo nome, spiegando di non essere conosciuto, e dice di venire dalla terra percorsa dall'Arno. La prima anima coglie lo spunto per descrivere il percorso del fiume, che scorre tortuoso toccando il Casentino, Arezzo, Firenze e Pisa, e di ogni popolazione critica i difetti, paragonandoli a bestie: rispettivamente, porci, botoli ringhiosi, lupi feroci e volpi traditrici. Questa descrizione è in risonanza con il XIV canto dell'Inferno, in cui si racconta come il pianto che gronda dal gran Veglio di Creta formi successivamente i quattro fiumi d'Inferno: l'Acheronte, in cui si ingozzano gli ingordi; lo Stige, dove si azzuffano gli iracondi; il Flegetonte, in cui gli assassini e i tiranni ribollono nel sangue; e il Cocito, dove i traditori sono stretti nella morsa dei ghiacci. Nella sua tirata, non manca di profetizzare che il nipote dell'anima che gli è vicina presto diventerà un sanguinario condottiero fiorentino. Dante chiede chi siano, e l'anima risponde di essere Guido del Duca, un giudice ghibellino romagnolo morto verso la metà del 1200; il suo vicino è Rinieri da Càlboli, guelfo di Forlì morto nel 1296; nessuno di questi due signori era particolarmente noto, se non per il loro carattere di invidiosi; il nipote di Rinieri a cui si riferisce la profezia, è Fulcieri da Càlboli, a cui nel 1303 fu affidata la podesteria e il capitanato di Firenze, che egli esercitò con sanguinaria ferocia. Dopo aver parlato di questo personaggio, l'anima di Guido del Duca continua con un lungo catalogo di personaggi importanti della Romagna, lamentandone la inarrestabile decadenza. Storicamente, dopo la morte di Federico II (1250), la Romagna si trovò divisa in fazioni dove prevalsero i signorotti più brutali e spregiudicati. Questa carrellata di personaggi termina con lo sconforto dell'anima che racconta, che si chiude in un pianto silenzioso. I due poeti riprendono la via, e come all'inizio del canto precedente, sono sorpresi da due frasi che risuonano improvvise: "Mi ucciderà chiunque mi incontri" è il lamento di Caino, dopo la maledizione che Dio gli getta per aver ucciso Abele; mentre "io sono Aglauro che divenni sasso" è la citazione da Ovidio del destino della sorella di Erse, che spinta dall 'Invidia in persona, tentò di mandare a monte il matrimonio della sorella con il dio Mercurio, per cui egli la fece diventare di pietra. Entrambe le frasi sono esempi di invidia castigata, e Virgilio commenta con amarezza come gli uomini, adescati dall'invidia, si lascino accecare, perdendo il giusto cammino verso le vere bellezze eterne del cielo. Mi permetto di proporvi una breve riflessione, per farvi notare quanto sia diffuso questo vacuo comportamento, nella nostra decadenza plastificata, in cui la misura del nostro valore sociale sembra consistere unicamente nel possesso di beni superflui che ci vengono continuamente proposti come assolutamente indispensabili, spingendoci a ignorare l'imbarazzante consapevolezza che il limite fisico di tutte le nostre risorse naturali si sta rapidamente avvicinando. |
02/07/2008 00:00:00 | Nel XIII canto del Purgatorio, Dante e Virgilio giungono sulla cornice degli invidiosi, che qui sono indicati non tanto come coloro che desiderano ciò che gli altri posseggono, quanto coloro che si compiacciono quando gli altri perdono le cose che hanno in più di loro, sia in termini di cose materiali che in termini di prestigio sociale, rivelando così la contiguità etimologica della parola "invidia" con il popolare termine "malocchio"; in questo senso essi fanno da contraltare ai superbi della prima cornice, che invece si compiacevano di esibire proprio ciò che avevano in più degli altri. Questo ripiano appare agli occhi di Dante come del tutto privo di dettagli visibili, pervaso di una accecante uniformità che non permette di distinguere altro che il pallido colore della roccia. In mancanza di indicazioni, Virgilio si incammina nella direzione del sole. Ed ecco che si odono sibilare nell'aria, quasi come sferzate, tre voci in rapida successione: La famosa frase "Vinum non habent", che Maria rivolse a Gesù alle nozze di Cana, invitandolo così a fare il miracolo dell'acqua tramutata in vino; "Io sono Oreste" che pronunciarono coraggiosamente insieme Oreste e Pilade al cospetto di Creonte, che voleva ucciderlo; "Amate coloro che vi hanno fatto del male", tratta dal discorso di Gesù ai discepoli sulla montagna. In ognuna di queste frasi, si esalta la generosità e la spinta altruistica, ed esse dunque hanno per gli invidiosi la funzione di uno stimolo all'espiazione delle loro colpe. Virgilio invita Dante a guardare meglio il lato della strada dalla parte della montagna, e Dante infine riesce a distinguere una fila di penitenti addossati alla parete, lividi come quella, che recitano le litanie dei santi, indossano un ruvido cilicio e hanno gli occhi richiusi da una rude cucitura di fil di ferro, che già da sola suscita pietà. Incoraggiato da Virgilio, Dante chiede se qualcuno di loro sia nato in Italia; risponde l'anima di una donna senese, che si chiamava Sapìa, ed aveva in spregio tutti i suoi concittadini, tanto che si compiacque della loro disfatta alla battaglia di Colle Val d'Elsa, a cui abbiamo accennato già due canti fa parlando di Provenzano dei Salvani, di cui probabilmente era la zia; e confessa che in tale circostanza osò addirittura bestemmiare Dio; ma salvò la sua anima, perché di lì a poco si dedicò alla beneficenza, ed anche per merito delle preghiere del frate Pietro Pettinaio, che all'epoca era ritenuto come un santo. Poi chiede a Dante come sia giunto fin lì, ed egli spiega di essere vivo ed accompagnato da Virgilio. Così, lei gli chiede di portare sue notizie a Siena, i cui abitanti speravano inutilmente di costruire un porto nella palude di Talamone, così come altrettanto inutilmente cercarono l'inesistente fiume sotterraneo Diana, per avere uno sbocco sul mare. |
27/06/2008 00:00:00 | Ho messo a disposizione, in fondo alla pagina dedicata a Wislawa Szymborska, sei nuove registrazioni audio di altrettante sue poesie tradotte da mia madre. Le mie intenzioni restano quelle di farne dei video, ma intanto ho provato a recitarle per esercizio e credo che possano essere apprezzate anche così; eccole allora, e poi vedremo se troverò il tempo per realizzare le loro versioni video. |
25/06/2008 00:00:00 | Ho aggiunto il XII Canto del Purgatorio alla mia collezione dei canti della Divina Commedia. Dante ancora avanza chino a lato di Oderisi, ma Virgilio lo invita a procedere, lasciando i superbi al loro faticoso compito. Poco oltre, il pavimento è decorato con bassorilievi simili a quelli presenti sulle tombe che si trovano in alcune chiese. Essi sono disposti in tre file di quattro immagini, più una scena finale che li chiude; tutti rappresentano episodi di superbia punita, e si contrappongono idealmente agli esempi di umiltà che avevamo trovato effigiati nel canto X. La descrizione di questi riquadri viene resa tecnicamente da Dante con quattro terzine che iniziano con "Vedea...", per la prima riga di quattro immagini, quattro terzine che iniziano con "O ...", per la seconda riga, e quattro terzine che iniziano con "Mostrava..." per la terza riga. L'ultima terzina, che descrive la scena finale, è composta da tre versi che iniziano rispettivamente con "Vedeva...", "O ..." e "Mostrava...". L'acrostico "VOM", interpretando la "V" come una "U", come era usuale nel medioevo, potrebbe valere per "UOM(O)", come a simboleggiare quanto la superbia sia insita nella natura umana. I quadri raffigurati rappresentano rispettivamente: nella prima fila, Lucifero che cade dal cielo; il gigante Briareo trafitto dalle saette di Giove, contro cui si era ribellato; Apollo (Timbreo dal suo santuario di Thymbra), Minerva (Pallade) e Marte che rimirano il campo su cui giacciono sparse le membra dei Giganti da loro abbattuti: Nembroth, sperduto ai piedi della torre di Babele da lui eretta a Sennaàr. Vale la pena notare che nella parte finale dell'Inferno avevamo trovato, in ordine speculare, questi stessi personaggi, con Lucifero al centro della Terra. La seconda striscia illustra le sorti di Niobe, che l'orgoglio per i suoi quattordici figli portò a offendere Latona, madre di Apollo e Diana, e che per questo li vide morire tutti, e dal dolore diventò una statua di pietra; di Saul che, sconfitto dai filistei sul monte Gelboè, si trafisse sulla propria spada, per cui Davide, maledicendo il luogo, ottenne che non generasse più alcun frutto; di Aragna, tessitrice della Lidia che fu trasformata in ragno da Minerva, offesa per essere stata da lei battuta in una sfida di abilità nella tessitura; di Roboamo, superbo figlio di Salomone, che prima minacciò il suo popolo, ma poi fuggì per paura di una possibile rivolta. Nella terza fila, troviamo: Alcmeone che uccise la madre Erìfile per vendicare l'uccisione del padre Anfiarao, da lei tradito per un prezioso monile; il re degli Assiri Sennacherìb ucciso dai figli nel tempio di Ninive per avere vilipeso il re ebraico Ezechia; la regina Tamiri, che sconfisse Ciro di Persia, che le aveva ucciso il figlio, e ne gettò la testa in un otre pieno di sangue umano, dicendo: "Hai avuto sete di sangue, ora te ne sazierai"; gli Assiri in rotta dopo la morte del loro generale Oloferne, decapitato nella sua tenda da Giuditta, come racconta la Bibbia. Infine, nel quadro conclusivo, sono rappresentate le rovine di Troia dopo la sua sconfitta; tutte le scene sono riprodotte con una tale maestria, che non le vide meglio chi le vide dal vero. Virgilio e Dante procedono nella loro strada, ed ecco farglisi innanzi un angelo, che li guida alle strette scale che conducono alla cornice superiore, e già si sentono nell'aria nuove voci che cantano in coro; Dante si meraviglia di salire con poca fatica, e Virgilio gli spiega che l'angelo, battendo le ali, gli ha cancellato la prima delle sette "P" che egli aveva incise sulla fronte; al che Dante si tocca incredulo con le dita, e Virgilio non può fare a meno di sorridere. |
20/06/2008 00:00:00 | Oggi ho aggiunto, all'inizio della pagina di recitazione, una registrazione audio della poesia di Cesare Pavese "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi". Forse un giorno apparirà anche un video... ma di più oggi non dico. So bene di aver promesso anche nuove poesie della Szymborska, che mia mamma ha già tradotto da tempo; ma sono ancora un po' preso da molte iniziative, ed il tempo è tiranno: spero di disimpegnarmi entro la fine di Luglio. Altra comunicazione importante: sul sito "Strade del cinema 2008" si sta tenendo il "Concorso SilentARTmovies", a cui partecipa la mia amica Giulia Salis. La sua opera è la n.24 della sezione "pittura", intitolata "La passione di Greta Garbo". Le opere si possono votare, e si può anche inviare un commento (che però non viene visualizzato). Il voto minimo è 1, quello massimo è 10. Ma votatela solo se vi è piaciuta! Saluti a tutti. |
19/06/2008 00:00:00 | La mia collezione dei canti della Divina Commedia si arricchisce del canto XI, che inizia con la celebre parafrasi del "Padre nostro" recitato dai superbi, mentre avanzano curvi sotto il peso di grossi macigni. A loro si rivolge Virgilio, chiedendo indicazioni per un passaggio alla cornice superiore che sia adatto anche a Dante, che è gravato del peso del suo corpo ancora vivo. Si leva tra loro una voce che li invita a seguirli per trovare il passo, e poi si presenta a Dante come Omberto Aldobrandesco, signore di Soana della metà del 1200, che confessa il suo peccato di superbia arrogante. Un'altro viene riconosciuto da Dante: è Oderisi da Gubbio, un famoso miniatore dell'epoca, che in vita era tutto preso dalla bramosia di successo (superbia vanagloriosa), ed ora invece si produce in un sentito sermone sulla caducità della fama terrena, nel quale, tuttavia, è adombrata anche la fama di Dante come successore dei due "Guido" (Guizzinelli e Cavalcanti) nella "gloria de la lingua". Poi indica a Dante un terzo esempio di superbia presuntuosa: Provenzano dei Salvani, che capitanò parte delle truppe senesi che sconfissero i fiorentini a Montaperti (1260), e ambiva a divenire signore di Siena, ma poi fu sconfitto e ucciso dai fiorentini presso Colle Val d'Elsa (1269). Poiché si pentì solo alla fine della sua vita, Dante chiede come mai non è ancora in Antipurgatorio; ma Oderisi spiega come egli si umiliò a chiedere la carità sulla piazza del Campo di Siena per raccogliere i soldi necessari a riscattare un suo amico rimasto prigioniero di Carlo d'Angiò; e questo gesto gli valse la grazia. |
11/06/2008 00:00:00 | Come nel X dell'Inferno si muovono i primi passi nella Città di Dite, così in questo X del Purgatorio, ultimo canto aggiunto alla mia collezione dei canti della Divina Commedia, si inizia la salita del Purgatorio vero e proprio. Dopo aver percorso una gola con andamento a zig-zag, Dante e Virgilio raggiungono una strada che sale costeggiando la montagna. Qui Dante è colpito da tre altorilievi scolpiti lungo la parete, con una tale arte che pare di sentire veramente le parole che le immagini raffigurate stanno pronunciando. La prima scena è quella dell'annunciazione dell'Arcangelo Gabriele a Maria; la seconda è l'ingresso di David in Gerusalemme, durante il quale egli, poco regalmente, si mise a danzare davanti al popolo per manifestare il suo tripudio al Signore; la terza è un dialogo tra l'imperatore Traiano e una vedova che lo muove a pietà e lo convince a renderle giustizia. I tre episodi hanno in comune una diversa forma di umiltà che viene esaltata e portata ad esempio. Su questa cornice, infatti, espiano le loro colpe coloro che hanno peccato di superbia: ed infatti, ecco che Virgilio indica a Dante delle figure che si avvicinano, piegati sotto il carico di un masso, che li opprime fino al limite della loro sopportazione. |
04/06/2008 00:00:00 | Finalmente Dante e Virgilio arrivano alla porta del Purgatorio, nel IX canto che ho aggiunto alla mia collezione dei canti della Divina Commedia. Con una elaborata sequenza di citazioni mitologiche, Dante ci racconta che, gravato dal corpo fisico che i suoi compagni non hanno, si è addormentato poco dopo il tramonto. Prima di risvegliarsi, quando ormai era mattino, ha sognato di essere rapito da un'aquila d'oro che lo porta fino alla sfera del fuoco, talmente ardente che l'emozione lo ha destato di soprassalto. Resta disorientato constatando di esser solo con Virgilio, e di non trovarsi nel luogo dove s'era addormentato. Virgilio gli spiega che, mentre lui faceva il suo sogno, Santa Lucia è scesa per lui dal Paradiso, e l'ha portato in prossimità dell'ingresso del Purgatorio. Dante si rinfranca e si avvicina al portone con Virgilio. Prima di questo ci sono tre gradini, che simboleggiano le fasi del pentimento, e sull'ultimo li attende un angelo che ha il potere di farli entrare. Dante si inginocchia davanti a lui, ed egli lo lo segna con la sua spada sulla fronte, con sette piaghe a forma di "P" che Dante dovrà risanare durante la sua salita nei sette gironi del Purgatorio. Infine mostra una chiave d'argento e una d'oro, con cui apre il portone: le ha ricevute da San Pietro, e rappresentano la prerogativa della chiesa di comprendere i peccati e di assolverli. Appena entrano, Dante è colpito da un maestoso coro "Te Deum laudamus" così grandiosamente cantato che il pellegrino ne intende le parole a fatica. |
27/05/2008 00:00:00 | "Era già l'ora che volge il disio ai navicanti e 'ntenerisce il core..." è il famoso incipit del VIII canto del Purgatorio, che ho appena aggiunto alla mia collezione dei canti della Divina Commedia. Nella sera, la campana della "Compieta" salutava il giorno morente. Un'anima si leva ed inizia a cantare l'inno "Te lucis ante..." con cui si invocava la protezione di Dio per la notte imminente. Ed ecco che appaiono due angeli a difendere quelle anime dal prossimo arrivo di un minaccioso serpente. Dante segue Sordello e Virgilio in mezzo alle anime radunate, e qui incontra il giudice Nino dei Visconti di Gallura, che lo saluta calorosamente e gli chiede di dire a sua figlia Giovanna di pregare per lui, mentre ormai teme che sua moglie, Beatrice D'Este, l'abbia dimenticato, essendo andata in sposa a Galeazzo Visconti di Milano (omonimi ma di diverse origini). Ma ecco apparire il serpente, simbolo dell'orrore che suscita il male commesso: gli angeli lo attaccano come astori e lo respingono prontamente; infine ritornano nel Paradiso, da cui erano scesi. Allora si rivolge a Dante anche Corrado Malaspina, della Lunigiana, che chiede notizie della sua terra. Dante non c'è mai stato, ma riferisce del buon nome che il suo casato ha in tutta Europa; e Corrado, per ringraziarlo, gli predice che entro sette anni avrà modo di convincersi di persona di quanto questa buona fama sia meritata; infatti nel 1306 Dante fu accolto come onorato ospite dai marchesi Malaspina. |
21/05/2008 00:00:00 | Si procede nella mia collezione dei canti della Divina Commedia con il VII canto del Purgatorio, in cui Dante brilla per la sua assenza. Infatti tutto il canto è coperto dal dialogo che tengono Virgilio e Sordello da Goito, che è il maggiore poeta provenzale italiano, famoso per un compianto in morte del barone Blacatz, in cui esorta tutti i sovrani dell'epoca a prendere esempio dal coraggio del prode defunto. In modo simile, in questo canto, dopo aver condotto Virgilio e il taciturno Dante in una accogliente ansa nel fianco della montagna per passarvi la notte, descrive le anime di alcuni grandi sovrani che in quella cantano in coro con le altre anime dei neghittosi, convertiti solo in punto di morte. Tra questi sovrani, l'imperatore Rodolfo di Germania, il suo rivale Otakar II di Boemia, Filippo III di Francia, Enrico I di Navarra, Pietro III D'Aragona che canta intonandosi insieme al rivale Carlo I D'Angiò, ed altri ancora; ma tutta questa lista di personaggi è occasione per dimostrare quanto raramente a re valorosi succedano eredi altrettanto degni, e ciò deve essere interpretato come un segno che la grandezza degli uomini non si acquisisce per discendenza, ma deriva ogni volta direttamente da Dio. |
16/05/2008 00:00:00 | Non potevo lasciarmi sfuggire la visione dell'opera sulla Divina Commedia scritta da monsignor Frisina e Gianmarco Pagano, in scena in questi giorni a Milano. Ho fatto bene perché l'ho apprezzata moltissimo. Innanzitutto, credo che non potesse riuscire meglio l'impresa impossibile di concentrare l'intera Divina Commedia in poco più di due ore di spettacolo, senza tradirne sostanzialmente lo spirito. Inoltre, le musiche e i testi sono orditi in modo equilibrato tra musica classica e moderna, con citazioni a volte letterali di Dante, a volte necessariamente rivisitate, ma sempre rispettando le sue idee originali; gli interpreti sono bravi e molto appropriati ai loro ruoli; i ballerini e gli acrobati impreziosiscono tutto lo spettacolo integrandosi con gli interpreti in modo naturale; i costumi e le maschere, compresivi di un sorprendente e maestoso grifone, sono molto ben curati e credibili come lo sono anche i voli che gli attori a più riprese intrecciano sullo sfondo della scena, senza mai una sbavatura che ne scalfisca la magia. Infine, da elogiare anche la lineare ma efficace scenografia, dominata da un largo anello inclinato su cui i personaggi salgono e scendono, e che appropriatamente ruota su sé stesso per la prima volta nel momento in cui, nel fondo dell'inferno, Dante e Virgilio passano attraverso il centro della Terra. Splendide anche le immagini proiettate su più piani semitrasparenti, con effetti tridimensionali e di animazioni semplici ma in grado di creare potenti suggestioni, come i gorghi pieni di diavoli nell'Inferno, le corolle di beati che cantano nel Paradiso, e la vista veramente suggestiva dell'intera montagna del Purgatorio che fa un giro completo su sé stessa, proiettata al centro dell'anello della scenografia, che nel frattempo ruota in sincronia perfetta. Uno spettacolo veramente ben riuscito, e curato in ogni suo dettaglio. I miei più vivi complimenti a tutti. |
14/05/2008 00:00:00 | Nel VI Canto del purgatorio, che ho aggiunto alla mia collezione dei canti della Divina Commedia, Dante e Virgilio si disimpegnano faticosamente da tutte le anime che gli si accalcano intorno, per chiedere a Dante di ricordarle a coloro che possono pregare per loro. Poco più oltre, incontrano Sordello da Goito, di cui si riparlerà nel VII canto, che era mantovano come Virgilio, e per questo lo saluta con un abbraccio caloroso. Questa manifestazione d'affetto dà a Dante lo spunto per la famosa invettiva contro l'Italia, divisa da lotte intestine anche all'interno delle mura di una stessa città: "Ahi, serva Italia, di dolore ostello...". Ho ascoltato la versione di Carmelo Bene prima di proporre la mia interpretazione. Spero mi abbia ben ispirato. Vorrei farvi partecipi anche del mio piacere di aver ritrovato in rete il mio amico Lorenzo "DJ Blake", complice insieme a Massimo "Turbo" di una effimera stagione in cui come "Del Morto" abbiamo prodotto una decina di glaciali canzoni, di cui "Monica" rende testimonianza su questo sito. Un'altra menzione d'onore la merita per avermi permesso di realizzare nel suo studio le registrazioni di "A Egregie cose" nel Settembre 2001. Ha un sito personale e un bellissimo blog, dove sarete investiti da un mix torrenziale di musica elettronica, testi ed immagini che non potrà non coinvolgervi. Ciao Blake! |
08/05/2008 00:00:00 | Dopo secoli, ho ripreso uno dei compiti che avevo lasciato in sospeso, completando la mia antologia di poesie che abbiamo studiato nell'ultimo corso tenuto al Centro Coscienza, finito ormai da due mesi: meglio tardi che mai. Ho aggiunto tre poesie dell'incontro del 26 Febbraio e tre poesie dell'incontro conclusivo del 4 Marzo. Due poesie di Mario Luzi, una di Vittorio Sereni, una di Giorgio Seferis, una di Cristanziano Serricchio e una di Wislawa Szymborska. Quest'ultima l'ho scelta per il suo tema particolare, in quanto paragona la vita a una recita improvvisata direttamente in scena, e mi ha fatto ricordare gli esercizi di improvvisazione che facevamo alla Bottega teatrale di Firenze; per questo l'ho interpretata volentieri anche se la traduzione non è quella di mia mamma. Anche lei però mi ha già consegnato da mesi delle altre sue traduzioni della Szymborska che aggiungerò al più presto nella pagina apposita, appena avrò il tempo per realizzarle con la cura che meritano. |
06/05/2008 00:00:00 | Prosegue la mia collezione dei canti della Divina Commedia. Nel quinto canto del Purgatorio, Dante incontra le anime dei morti di morte violenta, salvati perché morti raccomandandosi alla misericordia celeste. Tra questi, Iacopo del Cassero, ucciso dai sicari di Azzo da Este nella palude presso la foce del Brenta. Un'altro è Buonconte da Montefeltro, figlio di quel Guido da Montefeltro che nel XXVII dell'Inferno ha raccontato a Dante come il diavolo lo avesse preso contendendo la sua anima a San Francesco: l'anima di Buonconte invece è raccolta dall'angelo di Dio, malgrado le proteste del diavolo che se lo vede togliere dalle grinfie "per una lacrimetta": e così si vendica sul corpo, che infatti non fu più ritrovato, facendolo travolgere dalle acque impetuose dell'Archiano e poi dell'Arno, che lo seppellì con i suoi detriti. In chiusura, restano memorabili i sei versi della mite invocazione di Pia dei Tolomei, sposa di Nello dei Pannocchieschi, da lui stesso poi pretestuosamente uccisa. |
29/04/2008 00:00:00 | Ancora un altro canto aggiunto alla mia collezione dei canti della Divina Commedia, il quarto del Purgatorio. Qui Dante e Virgilio iniziano una erta salita, e come Virgilio spiega, il Purgatorio ha una natura tale che più si procede e più diventa agevole, ma l'inizio è molto duro. Ad una balza, trovano delle anime in attesa: una di loro è Belacqua, un amico di Dante che scambia con lui delle bonarie battute, spiegando che, come gli altri suoi compagni, essendosi pentito dei suoi peccati solo al termine della propria vita, adesso deve attendere un tempo uguale a quanto ha vissuto, prima di iniziare la faticosa ascesa sulla montagna. |
22/04/2008 00:00:00 | Procedo nella mia collezione dei canti della Divina Commedia, con il terzo canto del Purgatorio. Qui Dante incontra coloro che sono morti mentre erano scomunicati, ma che malgrado ciò hanno meritato la salvezza, anche se devono attendere trenta volte il tempo della scomunica prima di poter iniziare la salita per la montagna del Purgatorio. Tra loro, si rivolge a Dante l'anima di Manfredi, figlio di Federico II, che regnò in Sicilia malgrado l'ostilità della chiesa e poi fu ucciso nella battaglia di Benevento combattendo contro le truppe di Carlo D'Angiò (1266). |
15/04/2008 00:00:00 | Ho aggiunto il secondo canto del Purgatorio alla mia collezione dei canti della Divina Commedia. Arriva una nave guidata da un angelo, che porta nuove anime, tra cui il musico Casella, che si fa riconoscere da Dante ed per confortarlo inizia a cantare soavemente l'incipit di una sua poesia tratta dal "Convivio". Ma dopo pochi versi, sopraggiunge Catone a sollecitare le anime nel loro lungo viaggio verso Dio. L'impresa della salita verso il paradiso terrestre oggi sembra più ardua del previsto. Non ci resta che continuare a coltivare la nostra laboriosa e paziente ricerca del giusto e del bello. |
08/04/2008 00:00:00 | "Per correr miglior acque alza le vele / omai la navicella del mio ingegno"... ormai imbarazzato da cotanto ritardo dalla data promessa, mi sono accinto all'ardua salita purgatoriale, il cui primo canto finalmente potete trovare nella mia collezione dei canti della Divina Commedia. Le mie pagine filosofiche, per cui sarò ricordato nei prossimi millenni, tardano a trovare una forma definitiva, per quanto i contenuti siano ormai ben definiti; ma per amor di chiarezza, sono costretto a procrastinarne ancora la pubblicazione (spero per poco); tuttavia, non ho voluto fare un torto a tutti coloro che di questo sito apprezzano l'aspetto più artistico, e dunque riprenderò il mio impegno di produrre qualche nuova registrazione audio o video ogni settimana. Per questa settimana intanto sono già a posto. In questo primo canto, Dante e Virgilio incontrano Catone, fiero personaggio diventato il simbolo dell'imparzialità e dell'incorruttibilità, così ammirato da Dante, al punto che sorvola sul fatto che formalmente dovrebbe essere catalogato con i suicidi. |
25/03/2008 00:00:00 | Dopo intere ere geologiche di silenzio, rieccomi in una sporadica apparizione per comunicare l'aggiornamento della mia collezione dei canti della Divina Commedia, ma trattenete il vostro entusiasmo: non ho ancora iniziato la salita al purgatorio, ma solo normalizzato i livelli audio delle registrazioni dell'inferno. In effetti ci sono molti sintomi di inesperienza tecnica, per cui alcuni canti sono distorti e altri hanno un volume troppo basso; non ho risolto tutti i problemi ma almeno li ho alleviati. Il progetto metafisico si avvia a giungere in porto, e presto riappariranno anche le pagine ancora congelate dedicate a "La terza ipotesi". Ho anche qualche poesia da aggiungere alla pagina del Centro Coscienza e qualche nuova traduzione di mia mamma di poesie della Szymborska. So che fremete, ma abbiate ancora un po' di pazienza... |
05/03/2008 00:00:00 | Sto lavorando alacremente sul mio progetto metafisico, per cui anche questa settimana è avara di novità. Per non lasciare il sito del tutto immutato, seguendo il suggerimento del mio fraterno amico Stefano, mi sono cimentato nell'epigrafe di Mario Tobino che ho aggiunto alla pagina di recitazione. Anche questa settimana, come la precedente, non ho prodotto il mio abituale canto di Dante. Prima di iniziare la salita al purgatorio, concedetemi una breve pausa. Da settimana prossima torneremo gradualmente alla normalità. |
23/02/2008 00:00:00 | Finalmente ho completato tutto l'inferno di Dante, nella mia collezione dei canti della Divina Commedia, aggiungendo il canto XXXIV che termina con il famoso verso "...e quindi uscimmo a riveder le stelle". E in qualche modo mi pare di esser uscito anch'io da un'impresa tanto impegnativa. Ora la salita al purgatorio e poi al paradiso è ancora lunga, ma l'importante è essere usciti vivi dall'inferno! Per festeggiare l'evento, ho aggiunto la possibilità di mandare una valutazione del lavoro fatto. Ad ogni modo, ho intenzione di proseguire con il ritmo di sempre, aggiungendo un canto ogni settimana. |
20/02/2008 00:00:00 | Dopo l'appuntamento settimanale con il gruppo di poesia, sui poeti europei del secondo novecento, ho aggiunto tre nuovi video nella pagina dedicata al Centro Coscienza: "Tempi brutti per la poesia" di Bertold Brecht, "Italiano in Grecia" di Vittorio Sereni, e "Un tempo sapevamo il mondo a menadito..." una delle prime poesia di Wislawa Szymborska, in una traduzione che non è di mia mamma. A proposito di quelle, ho delle nuove traduzioni che mia mamma mi ha dato di alcune poesie recenti della Szymborska, e che vorrei preparare dedicando loro un po' più di tempo, ma vi prometto che l'attesa non sarà troppo lunga. |
19/02/2008 00:00:00 | La cadenza di aggiornamento della mia collezione dei canti della Divina Commedia si sta mantenendo costante, e così questa settimana si è arricchita del XXXIII canto dell'inferno, il canto del conte Ugolino, mirabilmente commentato settimana scorsa da Benigni in televisione. Modestamente è uno di quelli che ho studiato meglio, per cui sono piuttosto soddisfatto del risultato. Tecnicamente, ci sono passi dove il volume è così alto che il suono risulta distorto. Accontentiamoci, dopo tutto sono solo registrazioni amatoriali! Appuntamento a settimana prossima per uscir a veder le stelle. |
13/02/2008 00:00:00 | Ieri sera al Centro Coscienza si è tenuto l'incontro inaugurale del secondo ciclo di poesia del novecento. Ha partecipato il poeta Tiziano Rossi, che ha letto e spiegato alcune sue poesie e un paio di brani di prosa dal suo ultimo libro "Cronaca perduta", ed ha gentilmente autografato la mia copia. Nella pagina dedicata al Centro Coscienza ho aggiunto tre nuove registrazioni di sue poesie lette in questa occasione, "Ritornato", "Mente" e "Il fuoco". Gli incontri del gruppo di poesia proseguiranno per altre quattro settimane, ogni martedì alle ore 20.45. |
12/02/2008 00:00:00 | Ho aggiunto ancora un canto dell'inferno alla mia collezione... e siamo al 32.esimo, proprio agli sgoccioli! A proposito, mi è piaciuto molto il XXVI canto (l'Ulisse) spiegato e declamato da Benigni, che hanno appena trasmesso alla TV. La sua versione del verso finale è diversa da tutte quelle che avevo ascoltato, mi sembra che suggerisca la suggestione non solo del "silenzio di Dio", ma anche della fiamma che tace (anche se sappiamo che in realtà non si spegne). Bravo, complimenti. |
08/02/2008 00:00:00 | Sto lavorando su cose che per ora non riguardano il sito, ma poiché ho imparato questa semplice cosuccia, sperando di fare una cosa gradita ho aggiunto in fondo a questa pagina un comodo bottone che permette di aggiungerla tra i vostri link preferiti. Il bottone visualizza la finestra di dialogo del vostro browser che richiede gli eventuali dettagli opzionali (il nome da visualizzare e il posizionamento in un sottomenù). I più curiosi possono visualizzare il codice (ed eventualmente copiarlo nel loro sito personale), semplicemente facendo click con il tasto destro del mouse sulla pagina e poi selezionando la voce "HTML". Cercate il controllo "BtnBookmark" e copiate tutto il tag <input .... />. Ho trovato questo suggerimento, dopo una breve ricerca con Google, sul sito http://www.comriesoftware.net/codewidgets/product.aspx?key=95. |
05/02/2008 00:00:00 | Al Centro Coscienza tra poco riprenderanno gli incontri del gruppo di poesia di cui ormai sono un frequentatore abituale. All'incontro inaugurale di martedì 12 Febbraio, c | |