Il punto di partenza delle mie considerazioni filosofiche è la domanda basilare
di cosa possiamo aspettarci alla fine delle nostre vite. Dopo aver fatto i debiti
scongiuri, se esaminiamo la questione con obbiettività, possiamo renderci conto
che tutte le proposte esistenti sono variazioni di due o tre filoni principali.
Dico "due o tre" perché le classificazioni sono rese complicate dal fatto che alcuni
modelli presuppongono l'esistenza di Dio ed altri no. Tuttavia, nella mia classificazione,
considero l'opzione dell'esistenza di Dio un elemento variabile della classificazione
principale, che si basa sul numero di opportunità di vita che ognuno di noi può
sperare di sperimentare.
La "prima ipotesi" è quella della "singola opportunità", secondo la quale ognuno
di noi sperimenta una sola vita. Se non ammettiamo l'esistenza di Dio, abbiamo la
"variante atea" della prima ipotesi, che suppone che ognuno di noi non sia mai esistito
prima di nascere nell'unica vita che sperimenta, e sia destinato a tornare nel nulla,
nell'eterna "non esistenza", una volta compiuti tutti i giorni della sua vita. Nella
"variante religiosa", si suppone che siamo stati creati da Dio con lo scopo di vivere
questa vita, alla fine della quale saremo giudicati in base al nostro comportamento,
e quindi destinati ad una perenne vacanza o ad una perenne prigionia.
La "seconda ipotesi" è quella della reincarnazione, così come è tradizionalmente
intesa in molte religioni orientali. Generalmente parlando, si suppone che la nostra
anima, una volta terminata una vita, possa incarnarsi nuovamente in un altro corpo
e vivere di nuovo, in un ciclo potenzialmente infinito ma che può essere interrotto
dopo una vita esemplarmente condotta in base ai canoni specifici delle singole dottrine.
In alcune di queste religioni sono presenti una o più divinità, ma questo modello
potrebbe funzionare anche senza immaginare necessariamente una divinità con le caratteristiche
tradizionali delle religioni occidentali, ed è possibile immaginare dunque una "variante
atea" e una "variante religiosa" anche per questo secondo modello.
Le differenze tra queste due prime ipotesi sono più di tipo formale che sostanziale;
infatti, se conveniamo di chiamare "nascita" solo la prima vita, usando il termine
"rinascita" per ogni nascita successiva, abbiamo comunque un momento iniziale che
corrisponde alla prima nascita dopo il quale, in seguito a peripezie più o meno avventurose,
si può accedere ad un esito finale di "perenne vacanza" in un "aldilà", al sicuro
da tutti i problemi che affliggono questo nostro umile mondo terreno.
È tutto qua? Dobbiamo rassegnarci a scegliere uno di questi modelli, e sperare di
aver azzeccato quello giusto? Dopo averci riflettuto saltuariamente durante tutta
la mia vita, mi sono reso conto che esiste un'ulteriore possibilità, che fino ad
oggi non è mai stata considerata con la dovuta attenzione, malgrado il fatto che
la sua eco risuoni in tanti passi di tanti grandi pensatori, e che siano note da
tempo anche molte idee che, a rifletterci bene, dovrebbero implicarla. A prima vista,
potrebbe sembrare una sciocchezza, perché va contro l'istintivo senso comune; ma
nel corso dell'ultimo secolo, il senso comune ha dovuto subire delle forti ed importanti
sconfitte da parte delle scienze fisiche e matematiche, proprio nei concetti necessari
per giudicare accettabile questa nuova proposta.
La "terza ipotesi" si ottiene immaginando che tutte le vite esistenti, anche se
si svolgono nel tempo in una parziale concorrenza, siano in realtà esperienze sperimentate
sempre da una stessa, unica mente condivisa. Usando il paradigma della reincarnazione,
potremmo dire che siamo tutti delle reincarnazioni successive della stessa anima,
anche se le nostre vite si svolgono nello stesso tempo fisico; usando il paradigma del
mondo creato dal Dio monoteista, potremmo immaginare di essere tutti come "sogni
successivi" di Dio, e i limiti alla nostra conoscenza e alle nostre possibilità sussistono solo
temporaneamente nella nostra esistenza contingente.
L'interpretazione che però preferisco, e che vi invito a cercare di adottare, è
che non esista veramente alcuna "anima universale", ma solo una "proprietà di consapevolezza"
insita potenzialmente nel mondo stesso, che può esprimersi solo al verificarsi di
un certo numero di condizioni che adesso non ci interessa tentare di definire meglio,
ma che certamente possono permettere dei gradi minori o maggiori di autocoscienza.
Ma il concetto da assumere come fondamentale è che questa "proprietà di consapevolezza"
sia necessariamente unica, e dunque, qualsiasi essere vivente voi incontriate nella
vostra strada, dovete considerarlo come una vostra propria esperienza di vita, esattamente
come se incontraste voi stessi come eravate ieri o come sarete domani.
Al di là dell'apparenza bizzarra che questa idea può avere, vi invito a non sottovalutarla,
e a provare a pensare come ci comporteremmo se fossimo tutti convinti che possa
essere vera. Nelle pagine successive, inizierò una panoramica dei motivi che dovrebbero spingerci a giudicare questa ipotesi come la più ragionevole
delle alternative: essa infatti, a fronte di un problema tecnico non necessariamente
pregiudiziale come quello della parziale concorrenza delle nostre vite, ci libera
da un problema
esistenziale assai più grave, a cui magari non facciamo più neanche
caso, a causa dell'assuefazione millenaria che ormai abbiamo. E considerando
come questa idea prospetti anche un'automatica giustizia "salomonica", dato che,
essendo l'unico "sperimentatore di vita" possibile, saremo destinati a ricevere
in egual misura tutto il bene e tutto il male che commettiamo, potremmo concludere
che, tutto sommato, anche se essa non rappresentasse la "realtà vera", sarebbe
comunque auspicabile credere che lo sia.
Continua sulla prossima pagina: "Quale è il problema".