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papo La terza ipotesi
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Quale è la soluzione

"Se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore, in che sua voglia venne."
(Paradiso XXXIII, vv.140-141)

All'inizio del 1900, i fisici avevano il grosso problema di dover conciliare il principio di relatività di Galileo, secondo il quale non esiste un sistema di riferimento privilegiato rispetto ad un altro, con le equazioni dell'elettromagnetismo di Maxwell, secondo le quali la velocità della luce nel vuoto è sempre costante. Si ipotizzò allora l'esistenza di un "etere" che fornisse il supporto per la trasmissione della luce, e dunque anche un punto di riferimento assoluto per la misurazione della sua velocità. Questo etere però non fu mai individuato e non si trovò nessuna minima variazione della velocità della luce misurata in differenti direzioni. Ciò sembrava indicare che la Terra fosse ferma rispetto a questo presunto etere, oppure che si dovesse rinunciare al principio di relatività di Galileo, o alla precisione delle leggi di Maxwell. Nessuna di queste alternative sembrava soddisfacente per i fisici di allora (e anche per quelli di oggi). Il genio di Einstein fu quello di proporre una soluzione drastica, che però funzionava: eliminò l'etere come del tutto inutile, e con la teoria della relatività ristretta riformulò le leggi del moto, in modo da salvare sia il principio di relatività di Galileo, sia la costanza della velocità della luce, e con essa le equazioni di Maxwell. Per fare ciò, dovette rimettere in discussione i nostri concetti di spazio e di tempo, cosa che allora fu molto temeraria, ma che alla fine si rivelò essere la scelta giusta.

La rivoluzione che la terza ipotesi propone, si basa su un procedimento analogo. Per risolvere le contraddizioni generate dalla consapevolezza della precarietà di ogni cosa esistente nel nostro mondo, e il senso di assoluta imprescindibilità che ognuno di noi prova pensando alla propria esistenza personale, essa rinuncia al concetto di anima, o a qualsiasi altro surrogato che dovremmo adottare per distinguere le nostre individualità, e riformula il concetto di "esperienza dell'esistenza", considerando come due punti fermi sia la necessità dell'esistenza del mondo in tutte le sue infinite forme, sia la necessità dell'esistenza di un soggetto in grado di sperimentare queste infinite forme. Per fare ciò, deve essere sacrificato il preconcetto della molteplicità delle nostre individualità, poiché solo l'unicità del soggetto che sperimenta l'esistenza può giustificare la sua necessità. Ognuno di noi percepisce l'illusione di una sua propria anima, o di una sua propria mente, o comunque di un soggetto interiore che sperimenta l'esperienza di vivere: ma questo soggetto deve necessariamente essere unico, perché la molteplicità dei possibili "soggetti sperimentatori di vita" esclude senza appello che l'esistenza di un "soggetto sperimentatore" specifico, quale ad esempio sono io stesso, possa essere considerata necessaria: un altro “sperimentatore” poteva benissimo nascere al mio posto, dai miei genitori, alla mia data di nascita, e con tutte le mie stesse caratteristiche fisiche, senza causare la minima differenza al resto del mondo.

Per usare una metafora immediatamente comprensibile, mi considero come uno che ha un biglietto della lotteria e scopre di aver vinto. L'unica spiegazione plausibile che non richieda la presunzione di un privilegio ingiustificato, è quella di immaginare che siano effettuabili infinite estrazioni, e quindi che presto o tardi anche il mio biglietto sarebbe comunque stato estratto, cosa che sarebbe possibile solo se il numero dei biglietti disponibili fosse dello stesso ordine di grandezza dei numeri interi, il che, come abbiamo già detto, risulta una cosa problematica da sostenere. Ma la vera domanda fondamentale è un'altra: perché mai io sono titolare di un biglietto della lotteria? È inutile tentare di divagare dicendo che il biglietto me l'ha dato Dio in persona; la domanda allora diventerebbe: perché mai io sono uno dei "possibili possessori” di uno dei biglietti necessari per partecipare al sorteggio? Non serve partire dalla constatazione che, poiché sono nato, allora significa necessariamente che ero senz'altro uno di coloro che potevano nascere: così si rigira la questione senza rispondere, come se si sostenesse che il fatto di essere stati bambini sia giustificabile con la constatazione che poi si è diventati uomini.

Il problema è che, al di là della valutazione probabilistica della possibilità della mia esistenza, nello stesso momento in cui la ragione mi costringe a riconoscere la mia contingenza, e dunque la mia non-necessità, l'evidenza mi costringe a concludere di rappresentare comunque un esito che si è verificato malgrado la sua infima probabilità, ossia che il mio biglietto è stato estratto; e questa sia pure infima probabilità dimostra inconfutabilmente la necessità della mia presenza "a priori" nell'insieme di tutti i possibili "soggetti sperimentatori di vita", ossia nell'insieme dei "possessori di un biglietto", includendo in questo insieme sia quelli che sono nati, sia quelli che hanno mancato per un soffio la loro unica opportunità di vita; anche se questo insieme è infinito, evidentemente non poteva essere completo senza la mia umile presenza, il che significa che io dovevo necessariamente essere uno dei "possessori di biglietto".

Questo è il vicolo cieco da cui la ragione ci impedisce di uscire: se siamo in tanti possibili candidati a "sperimentare una vita", gli altri potevano esistere, sia pure solo come candidati potenziali, anche senza di me. Ma se sono qui, significa che era necessario che anch'io fossi uno di loro e che, per una straordinaria fortuna, ho avuto anche l'occasione di sperimentare una vita effettiva. Sembra il paradosso del mentitore che afferma "io sto mentendo": se siamo in tanti, allora io non ero necessario, e tutti gli altri avrebbero potuto benissimo esistere anche senza di me: ma il fatto che io sono qui, dimostra che la mia presenza in mezzo a quei tanti era necessaria, fosse soltanto per il semplice fatto che altrimenti non saremmo stati veramente "tutti"; anche se non era necessario che io vincessi alla lotteria, era assolutamente necessario che io partecipassi al gioco: evidentemente, le estrazioni non potevano iniziare senza la mia presenza "potenziale"; e poi, guarda caso, ho pure vinto.

Solo la terza ipotesi risolve questo problema in modo lineare. L'evidenza dell'esistenza del mio proprio "soggetto sperimentatore" è imprescindibile, e l'unica spiegazione plausibile della sua necessità è che esso sia sempre lo stesso per tutti; le altre ipotesi sono costrette ad escogitare alternative più complicate, che implicano comunque una condizione di privilegio inesplicabile. Solo se non esistono "tanti" ma un solo "soggetto sperimentatore", non c'è alcuna improbabilità o privilegio particolare di cui dobbiamo darci una ragione. Tuttavia, dovremmo sforzarci di superare anche l'idea di un "soggetto sperimentatore" che trasmigra come un fantasma da una vita all'altra. Esiste solo una "sensazione di essere io", una sola "io-ità" che ognuno di noi prova in prima persona, e che è sempre la stessa per tutti, anche se ognuno pensa che la sua "io-ità" sia intrinsecamente collegata alle sue caratteristiche personali, e dunque tende a pensare di avere un'anima che racchiude la sua vera individualità: ma la "io-ità" è una, e sperimenta ogni possibile condizione di vita senza alcuna esclusione. Essa però non ha alcuna informazione o caratteristica che possa "trascinarsi dietro" tra due esperienze di vita diverse: la comunicazione di informazioni avviene solo attraverso la realtà fisica che fa da palcoscenico alle nostre vite. Tutte le caratteristiche individuali che pensiamo di possedere sono interamente dipendenti da condizioni o eventi fisici che hanno luogo nel nostro corpo e nel nostro cervello: alcuni sono motivati da cause ambientali, altri da cause innate ma tutti sono sempre riconducibili a qualcosa di fisico, al nostro DNA o comunque alle nostre condizioni di nascita. Però, malgrado tutte le influenze fisiche a cui siamo soggetti, penso che la nostra stessa consapevolezza sia l'elemento chiave che ci permette di esprimere una nostra vera "volontà", o un nostro "libero arbitrio" se vogliamo usare questo termine, e questo è ciò che ci rende responsabili delle nostre azioni, e capaci di influenzare "l'andamento del mondo" sia pure entro i nostri limiti contingenti.

Ho esplicitamente dichiarato che considero l'esistenza del mondo esterno, e quella degli altri esseri viventi, come uno dei punti fermi della mia costruzione metafisica: tuttavia credo che sia utile esporre qualche ragionamento per cui, anche se il nostro "io" è l'unico "io" che esiste, non possiamo sentirci autorizzati a pensare che gli altri esseri viventi che incontriamo possano non essere veramente "vivi" come ognuno di noi sente di essere, ma siano solo illusioni in un mondo illusorio. Questa posizione tecnicamente si chiama solipsismo, e ritengo che sia una sciocchezza pericolosa. È una sciocchezza, perché rivela una presunzione immotivata, di cui chiunque dovrebbe rendersi conto, considerando l'inevitabile caducità della propria condizione umana; ed è pericolosa, perché porta ad assumere comportamenti asociali che generano infine danni sia a sè che agli altri. Anche Cartesio, una volta arrivato alla certezza granitica della propria esistenza in quanto essere pensante, si trovò ad affrontare il problema di come arrivare a dimostrare in modo altrettanto certo l'esistenza effettiva del mondo esterno. Qui si trovò in difficoltà, perché, una volta riconosciuto che i sensi possono ingannarci, allora potremmo ritenere di essere sistematicamente ingannati, in un'illusione di realtà organizzata da un diavoletto maligno, al solo fine di tenerci prigionieri in un errore senza via d'uscita: qualcosa di simile a quanto racconta in modo molto spettacolare il film "Matrix". Per uscire da queste sabbie mobili, Cartesio affermò che l'idea di Dio come somma di tutte le perfezioni è superiore alla nostra esperienza, e dunque è un'idea innata, che deve venirci direttamente da Lui; e poiché tra le sue perfezioni è compresa anche la bontà, certamente non ci inganna, e quindi la realtà esterna non solo esiste ma può anche essere compresa dalla ragione.

Io preferisco una soluzione diversa, che non necessiti della presenza di un vero e proprio "deus ex machina". Dal mio punto di vista, l'errore del solipsista è quello di non considerare che, se gli altri si comportano "come se fossero vivi", ed esprimono una volontà a volte in contrasto con le sue aspettative, allora dimostrano che esiste almeno un'altra volontà in antagonismo con la sua, anche se fosse soltanto la volontà del diavoletto ingannatore di Cartesio. Accettare l'esistenza di una volontà esterna come quella del diavoletto, o accettare l'esistenza effettiva di tutti gli esseri viventi che incontro, o anche interpretarla come una forma diversa della mia stessa volontà (come in definitiva propone la terza ipotesi), non cambia il problema principale: in ogni caso, devo accettare il fatto che esista una realtà che sto sperimentando, e che si evolve in modo quasi totalmente indipendente dalla mia volontà cosciente. Capire la realtà ultima delle cose rimarrà inevitabilmente al di fuori della mia portata, se non altro per i limiti di conoscenza che implica il mio stato di essere umano mortale, ma posso almeno cercare di interpretare ciò che sperimento del mondo esterno con il modello più adatto che posso escogitare, valutando la sua adeguatezza con l'efficacia che dimostrano le mie iniziative quando mi comporto conformemente ad esso. Così, se pensassi che gli altri non esistono veramente, ciò finirebbe per manifestarsi con una mancanza di rispetto che poi mi attirerebbe delle antipatie, e di conseguenza mi potrei trovare isolato dagli altri, e in una situazione più difficile per risolvere i miei problemi.

Dunque, "funziona meglio" comportarsi assumendo che gli altri siano veramente vivi e sensibili (e suscettibili) come lo sono anch'io. Poiché la verità sta sempre dietro ad un velo che la nasconde, possiamo anche pensare che essa non esista veramente, ma che esistano solo i veli; quando ogni tanto riusciamo a strapparne uno, troviamo un nuovo modo di interpretare le nostre esperienze che "funziona meglio" rispetto al precedente; ma una volta acquisita la consapevolezza che gli esseri viventi che incontro hanno una vera esistenza, e che per il principio di unicità del "soggetto sperimentatore" sono anch'essi un'altra esperienza del mio stesso "io", allora dovrei sentirmi molto incoraggiato a trattare tutti con il rispetto e la solidarietà che vorrei ricevere a mia volta, ed anche a promuovere le condizioni perché tutti siano incoraggiati a comportarsi tra loro con ugual rispetto e solidarietà. Dal mio punto di vista, credere nell'esistenza "reale" del mondo esterno equivale ad essere convinto che ogni interazione diretta o indiretta che ho con ogni altro essere vivente è un'esperienza che vivo sempre due volte: una volta come la sperimenta la mia attuale persona, la seconda come la sta sperimentando l'altro.

Continua sulla prossima pagina: "Maggiori dettagli".

 

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Commenti ricevuti:
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04/04/2017 13:39:58IacopoCiao Giordano, sono contento che tu abbia compreso il problema in tutta la sua profondità. Per quanto presenti delle difficoltà concettuali, legate principalmente al nostro ordinario concetto di tempo, dovresti poter intuire che la soluzione della “Terza Ipotesi” è l’unica che riesce a eliminare la necessità di immaginare un insieme (infinito?) di possibili potenziali sperimentatori in attesa della propria chance di vivere. Se immagini che il gruppo dei possibili sperimentatori è ridotto a un unico “Io” (o “Sé”), che di volta in volta sperimenta tutte le vite possibili come un attore che recita ogni ruolo in una commedia, dovresti vedere che il mistero per cui “anch’io” mi trovo a far parte di questo gruppo sparisce del tutto. E riflettendoci meglio, dovresti vedere che questa soluzione è l’unica possibile per fare sparire questo mistero. Qualsiasi altra giustificazione, sia mistica che materialistica, non riesce a spiegare il mistero della “appartenenza al gruppo”, se non in apparenza.
03/04/2017 22:18:45GiordanoIl fatto di esistere presuppone che il mio Sè fa parte del gruppo dei possibili sperimentatori (alcuni dei quali sono poi nati, o nasceranno, e altri che forse non nasceranno mai). Il gruppo, per quanto infinito , non era completo senza la mia presenza... La metafora della lotteria calza a pennello: per vincere la lotteria (nascere) devo innanzitutto far parte del gruppo dei possessori del biglietto (possibili sperimentatori). Il perché esista questo gruppo e perché il mio Sè ne fa parte è un mistero... Non basta dire "Dio ci ha dato il biglietto"...come ben hai detto tu in questa maniera si va semplicemente a ritroso...la domanda infatti diventerebbe " perché esiste un gruppo di individui ad alcuni dei quali Dio dà un biglietto per partecipare poi a una lotteria?" Questo ci porta anche a domandarci se il nostro Sè/Io/Anima/Mente esiste "in potenza" anche prima della nostra nascita.

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